Riflettendo sulla morte di Federico Carboni.

1. E’ possibile riflettere sulla morte di Federico Carboni a mente fredda, senza farci influenzare dalla sua frase “Ora finalmente sono libero di volare dove voglio” (dove, povero Federico, dove sarai volato?)? Più che possibile, è doveroso. I media, imbeccati dall’Associazione Luca Coscioni, spingono sull’emotività, sulla commozione: ma ho il sospetto che, quando Marco Cappato, il dr. Mario Riccio, l’avv. Filomena Gallo iniziano ad aggirarsi – difficile non pensare agli avvoltoi – sulle persone sofferenti che stanno pensando di morire, non si commuovano affatto; selezionano i candidati – mai avvicinarsi a disabili che amano la vita e cercano sostegno dagli altri! – e ne valutano l’utilità per i loro scopi.
Rivendicano i loro diritti – e già questo è “freddo” – ma, poiché l’obiettivo dei loro clienti è di morire, in realtà ne vogliono strumentalizzare la morte per la loro battaglia: quella di chi resta vivo, ma vuole che altre persone – molte altre persone – muoiano.
La strumentalizzazione della morte di Fabiano Antoniani da parte di Marco Cappato è plasticamente rivelata dalla autodenuncia fatta immediatamente dopo il rientro dalla Svizzera. A Cappato interessava davvero la persona di Fabiano Antoniani oppure gli premeva di dare il via a quella procedura che avrebbe portato alla sentenza della Corte Costituzionale?
2. Non dico nulla di scandaloso: l’associazione Luca Coscioni, a cadavere ancora caldo di Federico Carboni, esulta perché si tratta del “primo italiano ad aver chiesto e ottenuto l’accesso al suicidio medicalmente assistito, reso legale dalla sentenza della Corte costituzionale 242/2019 sul caso Cappato-Antoniani”, “ringraziandolo” (dopo averlo aiutato a morire!) in quanto “ha preferito rinunciare alla possibilità di andare a morire in Svizzera e ha scelto di far valere i propri diritti in Italia”; sì, perché, come riferisce la “storia” della vicenda fatta nel sito dell’associazione Luca Coscioni, Carboni aveva scritto a Cappato per avere informazioni sul suicidio assistito in Svizzera, ma Cappato gli aveva fatto presente che la sentenza della Corte Costituzionale consente l’aiuto legale al suicidio a determinate condizioni anche in Italia.
Quindi, un altro passo in avanti: da Piergiorgio Welby, fatto morire dal dr. Mario Riccio con il distacco del respiratore artificiale al fine di affermare il principio che il medico ha il dovere di interrompere le forme di sostegno vitale al paziente che lo chiede, perché si tratta di terapie; a Fabiano Antoniani, aiutato a morire in Svizzera per ottenere il via libera al suicidio assistito dalla Corte Costituzionale; a Davide Trentini, aiutato a morire per “sgretolare” il requisito della dipendenza da forme di sostegno vitale preteso dalla Corte Costituzionale; a Federico Carboni, appunto semplicemente aiutato a suicidarsi.
3. Come è stato fatto morire Federico Carboni e come è stato possibile?
L’Associazione Luca Coscioni ha procurato a Carboni un macchinario contenente una pompa ad infusione mediante la quale è stato iniettata per via endovenosa una quantità letale di Tiopentone Sodico (Pentotal). Il macchinario era configurato in modo tale da permettere a Carboni di azionare personalmente la pompa (non sono stati resi noti particolari su questo punto), in modo tale che la morte fosse dovuta a suicidio – assistito, ma pur sempre suicidio, compiuto in piena coscienza dall’interessato.
Come è stato possibile arrivare a questo risultato? Il punto di partenza è stata la sentenza della Corte Costituzionale n. 242 del 2019 che ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.
Una sentenza che riguarda la fattispecie penale che punisce l’aiuto al suicidio, ma che il Tribunale civile di Ancona ha ritenuto fondare un obbligo, per il Servizio sanitario nazionale e per il Comitato etico competente, di verificare le condizioni di chi chiede di essere aiutato a suicidarsi e le modalità di esecuzione del progettato suicidio. Ecco che l’Azienda Sanitaria delle Marche e il Comitato Etico, che inizialmente avevano respinto le richieste di Carboni, sono stati obbligati a verificarne le condizioni fisiche e ad esprimere un parere sulla sua capacità di prendere decisioni consapevoli nonché sulla irrevocabilità della patologia, sulla sua dipendenza da forme di sostegno vitale e sull’intollerabilità delle sofferenze; nonché, più recentemente, sull’adeguatezza del Tiopentone Sodico a provocare una morte rapida e senza sofferenze.
Avuti questi pareri, l’Associazione Luca Coscioni ha agito autonomamente ad organizzare e a realizzare il suicidio di Carboni, ben consapevole che, da parte dell’Azienda Sanitaria, non vi era alcun obbligo di provvedere, in mancanza di quella legge che la Corte Costituzionale ha auspicato.
L’assistenza al suicidio da parte di privati, quindi, è stata compiuta con la certezza dell’impunità penale perché i pareri resi dagli organi pubblici davano certezza che sussistessero i presupposti richiesti dalla Corte Costituzionale.
4. “Non ho più niente della mia vita precedente. Prima dell’incidente facevo un lavoro che amavo, avevo una vita attiva, ero un ragazzo pieno di interessi, di passioni. La vita è bella e va goduta fino alla fine, ma solo fino a quando si ha la possibilità di viverla con dignità. Per me non è più così. Per me questa non è più vita, ma pura sopravvivenza. Per questo ho fatto la richiesta di accesso al suicidio assistito. (…) Ora mi ritrovo a vivere una vita, che non è più vita. Non voglio vivere altri 10-20-30 anni in queste condizioni. Non voglio subire ancora per tutti questi anni che ho davanti a me, l’umiliazione che il mio corpo venga toccato da altri”; questo scriveva Carboni alla Luca Coscioni in una lettera reperibile per intero sul sito dell’Associazione.
Ognuno può fare le sue riflessioni su queste parole; da giurista mi chiedo: davvero la liceità dell’assistenza al suicidio di Federico Carboni dipende dalle sue condizioni di salute e dalle terapie che gli venivano erogate?
Chiarisco: la Corte Costituzionale, nella sua somma ipocrisia (se la porta dietro dal 1975, quando legalizzò l’aborto) ha ritenuto di legalizzare l’aiuto al suicidio in casi estremi e drammatici come quelli di Fabiano Antoniani e, per giustificare la sua decisione, si è agganciata alla legge 217 del 2019 sulle DAT, che stabilisce espressamente che un paziente può rifiutare le terapie, anche salvavita, e imporre ai medici la loro sospensione o la sospensione dei sostegni vitali. Una decisione, quindi, che viene giustificata sulla base del noto art. 32 della Costituzione (“Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario …”) e che viene inquadrata nell’ambito del rapporto medico – paziente, quindi nell’ambito della medicina.
Su questo punto la Corte fu molto chiara: respinse espressamente l’impostazione della Corte di Assise di Milano che, invece, fondava il diritto al suicidio assistito sull’art. 13 della Costituzione, sostenendo che gli artt. 2 e 13, primo comma, della Costituzione, sancendo il «principio personalistico» e quello di inviolabilità della libertà personale, comporterebbero la libertà della persona di autodeterminarsi anche in ordine alla fine della propria esistenza, scegliendo quando e come essa debba aver luogo. No, ha affermato la Corte Costituzionale: dal diritto alla vita non deriva quello di rinunciare a vivere, quindi un diritto a morire; dal riconoscimento della libertà personale non discende l’inoffensività dell’aiuto al suicidio.
Questo contrasto si è riprodotto in occasione della bocciatura del referendum radicale che chiedeva di depenalizzare l’omicidio del consenziente: il quesito era basato proprio sul diritto alla libertà personale, in forza della quale, secondo i proponenti, se una persona maggiorenne e capace chiede di essere uccisa, gli altri lo possono uccidere perché egli ha il diritto ad essere ucciso. La bocciatura, ancora una volta, si è basata sull’inesistenza di un diritto a morire se non nell’ambito medico del rifiuto delle terapie, quindi del rapporto medico – paziente.
5. Chi ha “vinto” in questo braccio di ferro tra impostazione radicale (diritto a morire come espressione dell’autodeterminazione personale) e impostazione della Corte Costituzionale (morte del paziente possibile solo in conseguenza del rifiuto di terapie salvavita e di forme di sostegno vitale)?
Leggendo la lettera di Carboni, pare evidente che i radicali hanno vinto e che la costruzione giuridica con la quale la Corte Costituzionale riteneva (meglio: fingeva di ritenere) che i suicidi assistiti sarebbero stati limitati a casi rarissimi di pazienti in condizione di estrema gravità è miseramente crollata, prima ancora che il Parlamento approvasse una legge (che, infatti, ora i radicali non vogliono più).
Casi rarissimi? Lo stesso Carboni, prima di morire, si è auspicato che anche altre persone possano seguire il suo esempio e ottenere la morte agognata con un iter più semplice.
La scelta di Carboni non ha niente a che vedere con terapie, ma riguarda la vita e il suo significato: “i miei familiari, i miei affetti, l’assistenza, la fisioterapia, mi sono sempre stati accanto, non mi è mai mancato niente. Ognuno però deve avere il diritto di scegliere se andare avanti così, con dolori e sofferenze quotidiane, oppure no. E’ una scelta dolorosa ma, io preferisco andarmene con dignità piuttosto che vivere altri 40 anni di una vita che non mi appartiene”. E’ un “classico” ragionamento da suicida, che decide se, quando e come cessare di vivere.
I “paletti” della Corte Costituzionale sono miseramente crollati per due motivi: perché, già in partenza, riconoscere che solo alcuni abbiano diritto ad essere aiutati a morire, mentre altri no, rende difficile fissare dei confini; e perché tali “paletti” erano fragilissimi già a prima vista.
Il fatto è che la Corte era in palese malafede: aveva deciso di aprire la porta all’aiuto al suicidio sulla base di un’argomentazione folle. Fabiano Antoniani, infatti, avrebbe potuto soddisfare il suo desiderio di morire mediante sedazione profonda e distacco del respiratore artificiale: sarebbe morto in qualche giorno, in stato di incoscienza e senza alcuna sofferenza. Ma “il paziente, per congedarsi dalla vita, sarebbe stato costretto a subire un processo più lento e più carico di sofferenze per le persone che gli erano care”, una modalità di porre fine alla propria esistenza che egli “reputava non dignitosa” e che i propri cari avrebbero dovuto condividere sul piano emotivo; quindi, doveva essere reso lecito l’aiuto al suicidio per permettergli di morire “nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona”.
I “paletti” sono finti: la “dipendenza da forme di sostegno vitale”? Per Federico Carboni è stato individuato in un pacemaker. La “patologia irreversibile”? Carboni era tetraplegico e, quindi, aveva una gravissima disabilità. Le “sofferenze intollerabili”? Già la sentenza della Corte Costituzionale faceva riferimento alla percezione soggettiva dell’intollerabilità della sofferenza (“che la persona reputa intollerabili”), addirittura ritenendo sufficiente una sofferenza psicologica.
In definitiva: Carboni è stato aiutato a suicidarsi in presenza di condizioni che potrebbero ripetersi in moltissime persone. Propongo una categoria: gli anziani. Il 99% degli anziani ricoverati nelle RSA o negli ospedali sono in qualche modo affetti da patologie irreversibili e dipendono da qualche forma di sostegno vitale; molti di loro sono soli e depressi.
Pensate che, quando qualcuno di loro chiederà di essere aiutato a morire, il Comitato etico riterrà che non sia capace di prendere decisioni consapevoli?
6. Qualche altra riflessione nei limiti di una visione giuridica all’interno della quale cerco di muovermi (altri sapranno dare un quadro ben più ampio per comprendere cosa davvero è avvenuto e sta avvenendo).
Abbiamo legalizzato l’aiuto al suicidio; ma l’istigazione al suicidio – cioè l’azione con cui qualcuno instilla in un’altra persona l’idea del suicidio che, prima, non esisteva – resta punita dallo stesso art. 580 cod. pen.; e questo dovrebbe essere un’ulteriore garanzia che la persona che decide di farsi aiutare a morire sia pienamente libera, non influenzata da alcuno.
Carboni, nel video registrato poco prima della morte e che ci è stato abbondantemente proposto dai media, dice: “Ho fatto un incidente stradale a ottobre del 2010 andando a sbattere contro un casottino e sono rimasto tetraplegico. Da quel momento la mia vita è cambiata completamente (…) A gennaio del 2020 mi sentii con la Dignitas e incominciai a fare tutta la documentazione per andare in Svizzera”. Quindi, nonostante le sofferenze, per dieci anni Carboni non aveva pensato di morire, proprio perché, come abbiamo già visto, era ben assistito e circondato da familiari e amici. Perché il 2020? Difficile non ritenere che proprio la vicenda di Fabiano Antoniani (suicidatosi in Svizzera nel 2017) e, soprattutto, le due pronunce della Corte Costituzionale (2018 e 2019) non abbiano fatto sorgere in lui un’idea che, in precedenza, non c’era.
E’ un esempio, ma, di fatto, la legalizzazione del suicidio assistito costituisce un’istigazione alle persone fragili e in difficoltà perché intraprendano questa strada: questo vale sia nei rapporti con il medico (in precedenza, di una cosa eri certo: che non ti avrebbe fatto morire; ora il medico è sostanzialmente costretto a rappresentare ai pazienti in gravi condizioni questa alternativa: “preferisce farla finita”?), sia per le persone sole e depresse di cui abbiamo già parlato.
Libertà di uccidersi? Una costruzione astratta, che finge di non vedere la disperazione cui si può giungere!
7. Questo ci porta a un’altra considerazione.
Perché la Corte Costituzionale aveva limitato al massimo (anzi: aveva finto di limitare al massimo) la possibilità di legalizzazione dell’aiuto al suicidio? Lo aveva spiegato chiaramente: “Il divieto di aiuto al suicidio conserva una evidente ragion d’essere nei confronti delle persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine […] occorre scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere […] il rischio è che il suicidio avvenga senza alcun controllo sull’effettiva sussistenza della loro capacità di autodeterminarsi, del carattere libero e informato della scelta da essi espressa e dell’irreversibilità della patologia da cui sono affetti”.
Vedete? La libertà di decidere per la propria morte potrebbe essere vanificata da “interferenze di ogni genere”.
“Al legislatore penale non può ritenersi inibito vietare condotte che spianino la strada a scelte suicide, in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite”.
Le “interferenze” possono derivare anche da interessi di chi vuole indurre al suicidio e colpiscono le persone psicologicamente fragili, depresse, anziane, in solitudine … insomma tutte quelle che la nostra società inizia a considerare inutili, improduttive, costose per tutti, pesanti da sopportare.
La Corte Costituzionale era ben consapevole dei rischi, ma ha voluto aprire la porta alla legalizzazione dell’aiuto al suicidio e ora molte persone sono oggettivamente in pericolo …
8. Un’ultima riflessione.
Come abbiamo visto, la linea di azione dei radicali punta tutto sulla libertà, sull’autodeterminazione del singolo che ha il diritto di valutare se la propria vita è dignitosa e se è più opportuna farla cessare.
E’ banale: ma uno Stato (e una società) che, di fronte a una persona che si trova in condizioni tali da indurlo a chiedere la morte, gli risponde: “sì, ne hai diritto, ti aiuto”, mostra di ritenere quella vita inutile e quelle condizioni non dignitose.
Ecco che, inevitabilmente, dopo avere dato il “via libera” al suicidio assistito di persone in determinate condizioni, inizierà ad uccidere persone nelle stesse condizioni che non l’hanno chiesto. La legalizzazione del suicidio porta sempre con sé l’eutanasia non consensuale: anzi, è uno strumento ulteriore per giungere agli obiettivi eutanasici (se uno chiede di morire, non c’è bisogno di ucciderlo…).
Questo, in Italia, c’è già: la legge 219 del 2017 stabilisce che i tutori e i genitori di minori possano ordinare la cessazione delle terapie salvavita e delle forme di sostegno vitale per gli assistiti o i figli. I casi di eutanasia di persone in stato di incoscienza si moltiplicano (l’ultimo è certamente il caso di Samantha D’Incà, avvenuto qualche mese orsono).
Che società stiamo diventando?
Giacomo Rocchi
Fonte: RadioSpada