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L’embrione è un essere umano e agisce in maniera indipendente

Riportiamo qui il secondo articolo di Matteo Casarosa. Data la complessità del tema trattato invitiamo ad una attenta lettura in un luogo calmo senza particolari distrazioni. Il messaggio principale è che la scienza e la filosofia confermano che un embrione è, per sua essenza, un essere umano e quindi anche persona.

L’embrione è un essere umano? Ha una sua “autonomia”? Se alla prima domanda abbiamo già risposto qui, con il parere della scienza, alla seconda risponde adesso uno studio che ha verificato come gli eventi centrali della morfogenesi dell’embrione umano vengono raggiunti ugualmente in assenza di interazioni con tessuti materni, purché l’embrione sia situato in un ambiente che ne permette la sopravvivenza e abbia accesso al nutrimento di cui ha bisogno.
In parole comprensibili anche a chi non ha una laurea in biologia, fin dai primi giorni dopo il concepimento, l’embrione umano cresce e agisce per conservare la propria esistenza autonomamente, senza bisogno di essere guidato in ciò da stimoli provenienti dall’organismo materno. Nell’abstract dell’articolo gli autori definiscono gli eventi di rimodellamento dell’embrione appunto come “autonomi da parte dell’embrione” (“embryo-autonomous” nel testo originale).
Prima di noi hanno già parlato di questo studio sulla rivista online Public Discourse, in un articolo nel quale, dopo aver presentato i risultati dello studio, l’autrice ha sottolineato la rilevanza bioetica di questa scoperta, alla luce del fatto che l’autonomia distingue un organismo (e quindi un essere umano) da un organo o da un tessuto.

Per parlare di questo argomento, noi di Documentazione.info abbiamo deciso di porre alcune domande a un esperto. Quella che segue è l’intervista gentilmente concessaci dal professor Victor Tambone, bioeticista, docente presso l’Università Campus Biomedico di Roma.

1) In quale modo, a partire dall’antichità, il progredire dell’embriologia ha influenzato il pensiero bioetico?

La bioetica viene intesa sin dall’inizio come una etica applicata ai fenomeni biologici, per questo nel campo bioetico della procreatica l’embriologia ha avuto da sempre una grande importanza anche se la sua relazione con le posizioni bioetiche ricalcano la relazione esistente tra biologia ed etica in generale, tra biologia e filosofia. Si tratta di un tema enorme, centrale e affascinante che mette in relazione la teoria della conoscenza con la teoria etica. Il progredire della embriologia ha influenzato il pensiero bioetico nella misura in cui la riflessione bioetica ha seguito una metodologia cognitivista (posso conoscere la verità a partire dalla conoscenza della verità, collegando la verità biologica a quella etica) oppure una non cognitivista o addirittura relativista. L’attuale tendenza “post-truth” (cfr. “The post-truth world: Yes, I’d lie to you,” The Economist Sept 10, 2016) radicalizza questa dinamica affermando che nel discorrere umano la verità ha una importanza secondaria e che i fatti oggettivi sono meno decisivi delle emozioni e opinioni personali.

Naturalmente nella antichità, intesa come il periodo storico precedente al Medio Evo, non avevamo né l’embriologia né la bioetica ma già era presente nell’uomo l’interesse per conoscere e interpretare l’inizio della vita e il collegamento di coscienza rispetto a come bisognava comportarsi in tutto ciò che si riferiva a questa realtà biologica. Per questo possiamo dire che già dall’antichità c’era un forte collegamento fra biologia ed etica, fra essere e dover essere, rendendo la cosiddetta “legge di Hume” (Trattato sulla natura umana  1739), sviluppata poi nella “fallacia naturalistica” da George Edward Moore (Principia Ethica 1903) un vero punto di discontinuità logico e metaetico fra antichità e pensiero moderno.

Il collegamento tra biologia e bioetica ricalca il collegamento tra la teoria della conoscenza e la teoria etica. Per coloro che percorrono i sentieri del realismo la conoscenza è possibile e diventa fondamento delle scelte in riferimento alla realtà personale e relazionale che ognuno vive nella sua, ancora una volta, realtà: il punto di partenza per valutare l’aborto diventa sapere cosa sia l’embrione (nella sua realtà biologica, personale e relazionale), cosa faccio con l’aspiratore Karman (sul feto e sulla donna), quali sono le conseguenze (per il feto e per la donna). Il dato biologico è il punto di partenza valutativo.

Per l’impostazione Contrattualista il principio di Autonomia (cfr. Beauchamp, Tom L., and Childress, James F. 2001. Principles of Biomedical Ethics. New York: Oxford University Press) diventa il riferimento utile in una società con diversi orientamenti morali e tendente al relativismo etico, dove le controversie bioetiche saranno oggetto di negoziazione e di accordo (contratto) tra gli individui, naturalmente gli individui capaci di contrattazione. Si configura un interesse pertanto non tanto verso il bene, che di fatto come concetto non esiste più, ma verso l’oggetto accordato. In questo ambito il concetto stesso di verità viene sostituito dal concetto di opinione: di conseguenza il ruolo delle evidenze biologiche non appare chiaro perché il valore oggettivo della scienza si scontra con l’interpretazione relativistica della realtà. L’impostazione contrattualista ha inciso tanto nella impostazione biopolitica contemporanea modulando, all’interno della logica di mercato, anche la giustizia sanitaria, l’economia sanitaria, la governance clinica fino ad una rilettura della relazione medico/paziente nella luce di cliente/erogatore di risorse. L’impostazione individualistica alla Ayn Rand e la virtù del selfishness, fino all’egoismo razionale, (The Virtue of Selfishness: A New Concept of Egoism (1964). New York: New American Library, rivisto nel 1970) oltre a radicalizzare l’impostazione contrattualista, comporta la teorizzazione del capitalismo senza limiti fornendo un ottimo framework per ciò che Nikolas Rose chiama “la molecolarizzazione della vita” (Politiche della Vita 2003) e che sostituisce al dato biologico il ruolo nel mercato. Il dato biologico è secondario e strumentale.

La tendenza New Age ha negli ultimi trenta anni inciso molto riguardo il collegamento tra biologia e bioetica rilanciando a livello di pop-filosofia il Vitalismo Ciclico. Questo è avvenuto a partire dalla ricerca finalizzata all’aborto chimico con la RU486 (Baulieu EE., Ru486 as an antiprogesterone Steroid, JAMA, 6 october 1989, p. 1813) e, paradossalmente, dalla ricerca riguardante la FIVET (Edwards RG., In Vitro Fertilitation and Embryo Transfert, Annals of the New York Academy of Sciences, 1985, Vol 442, p. 565). L’aborto precoce e la manipolazione degli embrioni nella fecondazione artificiale, soprattutto in riferimento al congelamento degli embrioni soprannumerari, richiedevano una interpretazione della vita embrionale non più personale e individuale ma in una ottica vitalistica, in linea con il concetto di “organismo collettivo” (Tambone V., Bioethics and the New Age, in Contemporary Ethical Issue, Nova Science, New York, 2005). Il dato biologico è trasfigurato in una visione mitologica.

Intendendo per Pragmatismo sia la teoria del significato che la teoria della verità, che valuta ogni principio teorico secondo una valutazione strumentale (praticità intesa come utilità o come verificazione, o come prevedibilità, o ancora come conseguenze), l’approccio Pragmatista alla realtà valorizza e promuove il progredire della conoscenza embriologica ma dal punto di vista della efficienza delle pratiche procreative (Embryo Transfert in primo luogo). Detto in altro modo questa impostazione distingue la conoscenza della verità dall’azione, negando la teoria della verità come corrispondenza con la realtà, interessandosi a questioni metodologiche per agire con profitto ed efficacia. Forse questa è la cornice nella quale intendere molte recenti ricerche sperimentali riguardanti lo zigote e l’embrione che non hanno una ricaduta significativa dal punto di vista bioetico ma una forte applicabilità alla pratiche di fecondazione artificiale. Il dato biologico è utilizzato in modo Pragmatico.

2) Quali sono stati i più recenti sviluppi in quest’ambito, e quali i punti che creano dibattito in ambito filosofico?

In questi ultimi 50 anni si sono presentate diverse interpretazioni dell’embrione umano basandosi su dati biologici più o meno rigorosi. Alcuni neologismi sono diventate idee forti che hanno influenzato in modo importante l’opinione pubblica anche se, dal punto di vista metodologico, sono molti i rilievi che si potrebbero portare (cfr. Herranz G., El Embrion Ficticio, Palabra Madrid, 2013). Le posizioni più dibattute penso che siano le seguenti:

a) Il “Pre-Embrione”: Grobstein nel 1979 parla del “pre-embrione” come via di unificazione interpretativa di diversi fenomeni embrionali quali la gemellizzazione, la totipotenzialità dei blastomeri, la ricombinazione chimerica (Grobstein C., External Human Fertilitation, Sci Am 1979;240(6):33-43). La fine della fase pre-embrionale avverrebbe per Grobstein al momento dell’annidamento, per la Voluntary Licensing Authority coinciderebbe invece con l’apparizione della stria primitiva, per l’American Fertility Society il riferimento è invece l’apparizione dell’asse embrionale. L’ultima parola in questo iter definitorio sarà dell’Ethics Advisory Board del Departament of Health, Education and Welfare che nel 1979 cristallizza il consenso delle diverse parti definendo che il pre-embrione finisce al 14° giorno. Le ragioni biologiche a supporto di questa definizione sono diverse e non sempre coerenti tra di loro. In sintesi si può dire che l’argomento principale a sostegno dell’idea del pre-embrione è la cosiddetta teoria delle “due popolazioni cellulari” (cfr. Huxley A., Research and the Embryo, New Scientist 11 april 1985; 106:2): si tratta di un argomento che sviluppa una certa “numerologia embrionale” alla ricerca di definizione e interpretazione della citologia embrionale. L’embrione inizialmente è composto da due popolazioni cellulari. La prima, più numerosa, è quella costituita da cellule “extra-embrionali”, la seconda quella deputata a formare l’embrione strettamente detto. I sostenitori di questo argomento affermano che dato che nel futuro questa popolazione maggioritaria sarà espulsa e non farà parte del bambino allora può essere considerato, l’embrione a questo stadio, come esterno al futuro bambino. D’altra parte si tratta di una posizione abbastanza fragile dal punto di vista logico per l’evidenza fisiologica che le strutture extraembrionali sono prodotte sempre e solo da un embrione tanto che la loro presenza testimonia dal punto di vista biologico la presenza di un embrione vivo e attivo. Naturalmente si tratta di una argomentazione che lascia anche senza risposta due domande: come chiamare allora la parte del pre-embrione che è deputata alla formazione dell’embrione?, perché una parte rilevante per l’embrione come il trofoblasto viene considerata irrilevante?.

b) L’argomento dei “gemelli Omozigoti”: questo è l’argomento principale utilizzato per negare di fatto la possibilità di individualizzazione dell’embrione precoce. L’embrione nelle prime due settimane di vita può andare incontro al fenomeno della gemellizzazione monozigotica (o della plurigemellizzazione) che consiste nella divisione in due embrioni di un embrione solo, attraverso diverse modalità a seconda che avvenga nei primi 4 giorni, fra il giorno 5 e 8, oppure tra il giorno 9 e 12. La scissione dopo il giorno 13 renderebbe problematica la reale scissione del disco embrionale provocando così il fenomeno dei gemelli “siamesi”. Le differenze genetiche fra gemelli omozigoti possono essere identificate attraverso la High Resolution Melt Curve Analysis (HRCA) che distinguerà un DNA dall’altro sulla base del loro diverso grado di metilazione, individuabile attraverso il riscaldamento del materiale genetico e la velocità con la quale ogni campione raggiunge la cosiddetta temperatura di melting o fusione (Leander Stewar & coll., Differentiating between monozygotic twins through DNA methylation-specific high-resolution melt curve analysis, Analytical Biochemistry, Volume 476, 1 May 2015, Pages 36–39). I gemelli omozigoti sono differenti non solo a livello genetico ma anche comportamentale e mentale perché lo sviluppo cerebrale, la reattività all’ambiente e altre ragioni ancora da chiarificare, manifestano il ruolo decisivo della epigenetica anche in questo campo (Julia Freund & coll., Emergence of Individuality in Genetically Identical Mice, Science, 10 May 2013: Vol. 340, Issue 6133, pp. 756-759). Dal punto di vista cutaneo i gemelli monozigoti hanno anche differenti impronte digitali perché hanno diversità nelle minutiae, cioè nella configurazione e distribuzione delle creste e dei solchi digitali. L’unica differenza a livello sessuale può essere attraverso il cosiddetto effetto Lyon o disattivazione del cromosoma X con una certa attenuazione dei caratteri fenotipici legati al sesso. Dal punto di vista storico non sembra esistere una storia completa della gemellizzazione monozigotica anche se le teorie al riguardo sono presenti sin dall’antichità classica. Dal punto di vista interpretativo il primo a collegare la gemellizzazione con la negazione della personalità dell’embrione è stato Schoonenberg nel 1962, il concetto fu ribadito nel 1964 da Sauser e Vadopivec e, nel 1969, da Ruff. Fu però Hellegers a divulgare questa interpretazione (Hellegers AE., Fetal Development, Theol St 1970,;31:3-9) attraverso un articolo non a carattere scientifico ma teologico. Anche se è molto interessante l’analisi e la critica di questo modello dominante mi sembra sufficiente dire che il fatto che da un embrione ne possano venire fuori due, non vuol dire che prima non ci fosse un embrione ma che l’embrione ha la capacità di produrre un secondo embrione attraverso una modalità che attualmente di fatto non conosciamo.

c) Il problema delle “Chimere Tetragametiche”: se vogliamo si tratta di una situazione speculare a quella precedente e che tratta di quegli animali o persone umane che hanno nel proprio organismo la convivenza di due o più corredi genetici provenienti o da contaminazione nella fase di gestione gemellare attraverso una probabile anastomosi dei vasi sanguigni, oppure per la fusione di due zigoti, a partire quindi da quattro gameti, oppure da tre cellule parentali (un uovo fecondato viene fuso a un uovo non fertilizzato oppure un uovo fecondato viene fuso con dell’ulteriore sperma). Se le cellule differenti emergono dallo stesso zigote viene chiamato mosaico genetico. La probabilità del chimerismo è aumentata a causa delle pratiche di fecondazione in vitro. Le chimere sono state chiamate così in analogia con la creatura mitologica Chimera. Dal punto di visto ontologico il fatto che da due zigoti che si fondono ne venga uno nuovo e diverso sembra negare che lo zigote sia già una individualità personale. Per risolvere questo interessante dubbio sarà utile in primo luogo considerare che probabilmente il difetto legato al chimerismo (non di contaminazione naturalmente) non è nella fusione di due embrioni post-zigotica ma nella fecondazione stessa, cioè nel momento costitutivo e non nell’embrione già costituito. Questa fecondazione “sui generis” sarebbe la fecondazione di due ovociti contenuti in una unica zona pellucida da due spermatozoi (cfr. Rosembusch V, The potential significance of binovular follicles and binuclear giant ovocytes for the development of genetic  abnormalities, Journal Genetics 2012;91:397-404) . Questa fecondazione darebbe come frutto quattro blastomeri che non rappresentano due embrioni affiancati ma un solo embrione che,  anche se di origine tetragametico, darà origine ad una blastocisti chimerica (cfr. Herranz pp. 208ss). A mio modo di vedere è interessante il fenomeno del chimerismo osservato anche a partire del soggetto adulto perché chiarifica, all’interno della teoria della causalità classica, che il codice genetico non deve essere inteso come causa formale ma come causa materiale poiché anche in situazioni di diversità e di patologia il soggetto rimane comunque una persona umana.

d) La perdita precoce degli embrioni: sembra che il numero di embrioni che si perdono in momenti molto precoci della gestazione sia elevatissimo. Se questo è vero osserviamo che la natura non dà un valore particolare e non protegge adeguatamente la vita di queste “forme vitali” la qualcosa, per alcuni, diventa sufficiente per affermare che neanche noi dobbiamo dare un valore particolare all’embrione precoce. Questo argomento non attira molto interesse per il semplice fatto che le evidenze biologiche a disposizione sono, a mio avviso, ancora da controllare e da rivalutare attraverso l’analisi dei confondenti biologici. Anche se il dato dominate (perdita del 50-70% degli embrioni in fase periannidatoria) fosse confermato non mi sembra che comunque la poliabortività diventi un fatto irrilevante ma, al contrario, sottolineerebbe l’importanza della ricerca clinica da sviluppare in questo ambito.

3) Qual è la rilevanza di quest’ultima scoperta sull’autonomia dell’embrione, in particolare dal punto di vista della metafisica aristotelica?

Il lavoro di Marta Shahbazi e collaboratori è un Technical Report che descrive con semplicità, chiarezza e buona sintesi un esperimento che produce evidenze di ottimo livello a supporto dell’idea che l’embrione sin dalla sua fase iniziale (zigote) ha una forte capacità di auto-organizzazione anche in assenza del tessuto materno, cioè in Vitro. Questa capacità dell’embrione di rimodellamento è fondamentale per il processo gestionale che non è un atto solo della madre, ma un evento vissuto e realizzato in due. Non è questa la prima volta che si osserva da un punto scientifico la capacità di auto-organizzazione dell’embrione anche molto precoce, i geni homeobox (quelli deputati alla morfogenesi) sono conosciuti da tempo, ma è importante l’osservare che questo accade anche in assoluto isolamento, in un ambiente completamente artificiale. Questo lavoro è stato pubblicato nel mese di maggio del 2016, anno nel quale anche Thomson e collaboratori hanno pubblicato un importante lavoro riguardante altri aspetti dell’auto-organizzazione embrionale (Thomson M., Signaling Boundary Conditions Drive Sel-Organization of Human Gastruloids, Dev Cell 2016 Nov 7;39(3):279-230), così come Denker riguardo la capacità embrionale di sviluppo in autonomia verso i fattori esterni  (Denker H-W, Self-Organization os Stem Cell Colonies and of Early Mammalian Embryos: Recent Experiments Shed New Light on the Role of Autonomy vs. External Instructions in Basic Body Plan Dvelopment, Cells 2016 Oct 25;5(4)). Il background più citato per quanto concerne il concetto di self-organization è quello evoluzionistico che troviamo nel libro di Kauffman del 1993 “The Origins of Order – Self Organization and Selection in Evolution”. Molto interessante è la riflessione di Wennekamp e collaboratori (Wennekanp S., et al., A self-organization framework for symmetry breaking in the mammalian embryo, Nature Reviews Molecular Cell Biology, 14, 452-459 (2013)) che suggerisce un nuovo approccio sperimentale e interpretativo per indagare lo sviluppo dei mammiferi osservando differenze a livello proteico che portano ad ipotizzare che lo sviluppo embrionale segua un pattern allo stesso tempo dinamico e stocastico, la qual cosa può essere accettata solo se si considera l’embrione come un “self-organizing system”. Sulla stessa via Deglincerti e collaboratori hanno pubblicato su Nature il Report di esperimenti da loro realizzati che li porta ad affermare di aver individuato specifiche della capacità di self-organization dell’embrione umano in chiave specie-specifica (Deglincerti A., et al., Self-organization of the in vitro attached human embryo, Nature, 2016 May 12;533(7602):251-4).

Come utilizzare e interpretare questi recenti dati biologici? Nel nostro gruppo di Ricerca abbiamo da sempre cercato di utilizzare il dato biologico come fenomenologia adeguata per una conoscenza ulteriore, metafisica. Questo perché il collegamento fra le superfici e le essenze è l’agire intellettuale più in linea con la pratica scientifica che vuole intervenire sugli effetti agendo sulle cause: si tratta del processo abituale nella pratica clinica che parte dalla osservazione (esame obiettivo, anamnesi ed esami diagnostici), passa attraverso la generazione alogica di una ipotesi diagnostica (intuizione clinica), si trattiene sul controllo della ipotesi per poi arrivare ad una diagnosi che sarà la base razionale delle decisioni terapeutiche. In altre parole quello che l’osservazione scientifica attraverso i sensi fornisce come conoscenza all’intelletto (induzione), viene da questo rielaborato in modo deduttivo per giungere a risultati razionalmente sostenibili e controllati con le best evidence disponibili.  Si può ben capire che i dati che abbiamo appena, e superficialmente, rassegnato sono una fenomenologia affascinante per la riflessione ontologica riguardo l’embrione. Per quanto mi riguarda ritengo che dalla esperienza di Shahbazi e di Wennekanp possiamo dire, purtroppo in questa sede non è possibile tematizzare e per questo mi accontenterò di condividere solo le conclusioni, che lo zigote è “uno” (come unità morfo-funzionale); è un “essere vivente” poiché interpretiamo la sua capacità di self-organization in chiave aristotelica come praxis teleia, tipo di atto (atto immanente perfettivo) che ricade nello stesso soggetto che lo compie ed è tipico del solo essere vivente. Inoltre l’esperienza di Deglincerti ci fa dire che lo zigote umano è “umano” appunto. Queste tre osservazioni messe in sistema secondo una osservazione che chiamiamo “multidimensionale” ci fa concludere che lo zigote umano è “Un Essere Vivente Umano”. E questo non è di poco conto.

4) Alla luce del grado di diffusione al giorno d’oggi delle diverse teorie sulla identità personale quali potrebbero essere i risvolti a breve termine di questo studio nel mondo della filosofia?

Per diversi pensatori il punto cruciale riguardo lo statuto ontologico dello zigote non dovrebbe essere il concetto di persona, perché quello di essere umano dovrebbe essere da una parte più comprensibile, per questo maggiormente condivisibile e, in fondo, inclusivo anche quello di persona. D’altra parte il concetto di persona viene messo in discussione anche per l’essere umano adulto o, paradossalmente, esteso anche agli animali o addirittura alle realtà biologiche geografiche sino a costituire all’interno del vitalismo ciclico più coerente il concetto di “organismo collettivo” che, necessariamente, tende ad espandersi sino a trovare nella ipotesi di Singolarità Tecnologica di Kurzweill (La Singolarità è vicina, 2005) la sua dimensione universale e autocosciente. La teoria di Gaia è la versione di questo processo all’interno della Ecologia Profonda. Il punto di partenza di questo processo non penso sia da trovare nella filosofia della persona ma nelle teorie della conoscenza. Per questo ritengo che, anche per la scienza embriologica, il punto di partenza (o di ripartenza) sia recuperare il Realismo nella conoscenza in generale e in quella scientifica in particolare. Il recupero del Realismo nella scienza penso che debba passare anche nella risoluzione della tensione metodologica (e non solo) tra riduzionismo e anti-riduzionismo forse anche attraverso quello che chiamiamo Riduzione Consapevole e Cooperante (V. Tambone, G. Ghilardi, Riduzione consapevole e cooperante, in La Clinica Terapeutica, SEU, 163 (3):e 95-60, 2012), accettando, sulla scia di GÖdel, Heisenberg ed Einstein, che il sogno della “Teoria del Tutto” è per l’uomo semplicemente impossibile. E’ invece possibile di fronte alle realtà complesse (multidimensionali) avere un approccio conoscitivo di reductio e compositio che metta in sistema le osservazioni fatte da diversi punti di vista attraverso gli strumenti di scienze diverse. Realismo e Riduzione Consapevole e cooperante.

Dopo questo, il secondo punto di riflessione filosofica che gli studi che abbiamo rassegnato possono suggerire saranno, mi sembra, a livello della teoria delle cause. In estrema sintesi quello che lo studio sulla self-organization mi ha suggerito è la possibilità di maturare anche una dinamica nella causalità che, in analogia con lo sviluppo embrionale, all’inizio potrebbe presentarsi in uno stadio di totipotenzialità che solo con lo sviluppo del co-principio materiale andrebbe specificandosi e distinguendosi. Le categorie di causalità prese nella loro forma statica mi sembra che difficilmente potranno interpretare queste dinamiche vitali così come le ultime scoperte le descrivono.

In fine, il terzo punto che questa recente ricerca biologica offre alla riflessione filosofica è quello della relazione materno-fetale in un rafforzamento dell’autonomia ontologica e funzionale dello zigote che, ovviamente, rafforza la realtà di una relazione materno-embrionale in un modo sempre più chiaro, e sempre più affascinante.

Matteo Casarosa

 

Fonte: http://www.documentazione.info/lembrione-e-un-essere-umano-e-agisce-in-maniera-indipendente

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