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Vietare l’aborto genererebbe davvero un mondo distopico? Tre falsi miti da sfatare

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Esiste un modo di argomentare chiamato “riduzione all’assurdo”. Invece di difendere direttamente una certa posizione, chiamiamola “A”, si mostra che la tesi opposta “non-A” ha implicazioni contraddittorie o comunque non credibili, quindi “non-A” deve essere falsa e “A” deve essere vera. Il pro-life usa una riduzione all’assurdo quando osserva che se l’aborto fosse lecito allora anche l’infanticidio, che uccide un essere identico al feto fatta eccezione per la collocazione ed altre caratteristiche moralmente irrilevanti, sarebbe ammissibile; ma non lo è, e quindi neanche l’aborto.

Anche il mondo pro-choice ha le sue pretese riduzioni all’assurdo, ma molto meno lineari e convincenti, come vedremo.

Capita ad esempio di sentir dire cose di questo tipo:

1)  « Se davvero considerate il nascituro una persona e l’aborto un omicidio, allora dovreste chiedere che alle donne che abortiscono venga dato l’ergastolo o magari perfino la pena di morte!»

Oppure:

2)  « Vietare l’aborto è semplicemente impossibile. Bisognerebbe fare frequentemente test di gravidanza a tutte le donne in età fertile ed in caso di esito positivo ammanettarle preventivamente ad un letto per evitare che si procurino un aborto!»

O ancora:

3)   « Se vietassimo l’aborto, questo metterebbe a rischio di essere indagate e condannate anche le donne che perdono il bambino involontariamente. Queste per la paura potrebbero decidere di non rivolgersi ad un medico dopo che ciò è avvenuto. Vuoi che delle povere donne muoiano dissanguate nella loro vasca da bagno, brutto mostro!?»

Vediamo rapidamente cosa c’è che non va con ognuna di queste critiche.

La 1) manca di distinguere tra il male che una certa azione oggettivamente comporta ed il grado soggettivo di responsabilità e malizia di una determinata persona. In parole povere, è possibile affermare che l’aborto pone fine ad una vita umana ed è oggettivamente un omicidio, ma al tempo stesso riconoscere che alcune persone coinvolte in esso potrebbero avere delle attenuanti notevoli a loro favore, che non si presentano tipicamente nell’omicidio di una persona già uscita da grembo materno.

I pro-life che sono veramente tali, e che quindi credono che l’aborto dovrebbe essere criminalizzato, di solito pongono l’enfasi sulla necessità di punire i medici indegni di questo nome che praticano aborti, il che sicuramente sarebbe sufficiente a rendere l’aborto molto più raro. Bisogna considerare che per questi “medici” non si applicano tutta una serie di attenuanti che valgono invece per una donna che si è procurata un aborto. La donna è profondamente coinvolta da una situazione che la tocca fisicamente e che può comportare notevoli preoccupazioni ed uno sconquassamento emotivo; inoltre, per una persona comune, che non abbia particolari conoscenze in ambito medico, è facile de-umanizzare il concepito e non provare empatia nei suoi confronti, mentre per uccidere una persona che è possibile vedere con i propri occhi direttamente, e non attraverso una ecografia, bisogna reprimere un ben più forte senso di orrore nei confronti dell’atto che si sta per compiere. Naturalmente le emozioni non determinano la realtà, e la vita di un bambino ha valore anche se sua madre non prova empatia nei suoi confronti. Le emozioni hanno però un ruolo nel determinare l’imputabilità e la gravità di un atto.

Alla luce delle osservazioni appena espresse, alcuni arrivano a dire che per la donna che si procura l’aborto, a differenza dei medici abortisti, non sarebbe opportuna alcuna pena. Gli Universitari per la Vita adottano come testo per la formazione “Aborto e 194” di Mario Palmaro, nel quale (pag. 16) l’autore osserva che

« Si dice che lo Stato dovrebbe affermare la illiceità dell’aborto, ma nello stesso tempo si dovrebbe evitare qualsiasi sanzione alla donna», rispondendo però che « si deve avere il coraggio di dire che il ragionamento non regge: se vuoi vietare una condotta perché ritenuta delittuosa, devi stabilire una sanzione per chi la commette», pur aggiungendo infine che «Potrai poi discutere sull’entità e sulla natura di quella pena;  potrai ad esempio escludere il carcere, e ricorrere a strumenti alternativi alla detenzione».

Questo dà la misura di quanto, nella mente di questo giurista, la somma delle varie attenuanti riduca la responsabilità di una donna che si è procurata l’aborto, pur non annullandola mai del tutto.

È evidente che le stesse scusanti non valgono per i “medici” abortisti. Loro non sono direttamente coinvolti, non sono travolti da improvvise preoccupazioni o finanche pressioni psicologiche, ed hanno tutti gli strumenti intellettuali per sapere che l’essere che eliminano è umano.

Veniamo ora alla critica 2). In questo caso l’errore è credere che riconoscere la vita umana come valore sommo implichi essere pronti a sacrificare qualsiasi altro bene per essa. Questo fatto si capisce meglio con una parodia dell’obiezione discussa. Supponiamo di vivere in un mondo in cui l’omicidio (anche di persone già nate) è indiscriminatamente permesso. Avrebbe senso difendere tale situazione nel seguente modo?

«Non possiamo vietare l’omicidio! Ci sono un sacco di situazioni in cui una persona ha l’occasione di ucciderne un’altra. Per impedire l’omicidio dovremmo spendere gran parte del denaro pubblico per formare un corpo di forze dell’ordine nel quale lavorerà circa un quinto di tutta la popolazione. Dovremmo fare in modo da non lasciare mai inosservati gruppi troppo piccoli. Inoltre, visto che gran parte degli omicidi avvengono in abitazioni private, non basterebbe neanche sorvegliare il suolo pubblico. Bisognerebbe che questo distopico corpo di polizia anti-omicidio sorvegli continuamente le persone anche nelle loro case, o dal vivo o con l’ausilio di telecamere di sorveglianza».

Il lettore starà probabilmente ridendo, come è giusto che sia, ma l’argomentazione è praticamente la stessa che troviamo al punto 2)! Più rigorosamente, la risposta si basa sulla distinzione tra ciò che è intenzionale e ciò che è meramente permesso. Il pro-vita può affermare che l’omicidio, cioè l’uccisione intenzionale di un essere umano (anche nel grembo materno) è sempre immorale, ma al tempo stesso ammettere che non si è obbligati a fare qualunque cosa possibile e immaginabile pur di salvare una persona, se questo portasse a conseguenze catastrofiche. Impoverire gravemente e spogliare della sua privacy un’intera nazione sarebbe troppo, anche se servisse ad evitare qualche omicidio. Ugualmente, privare di ogni libertà metà della popolazione (quasi tutte persone che non avrebbero fatto alcun male comunque) è impensabile, anche ammettendo che l’aborto sia un omicidio; ma questo non impedisce di prevenirlo in altri modi, comprese delle sanzioni. Molto semplicemente, la vita è un bene indisponibile, il più importante, ma non è l’unico.

Alcuni pro-choice sembrano anche avere un’idea esagerata della facilità con cui una donna può procurarsi un aborto. Nel momento in cui delle sanzioni ai “medici” e contro la vendita di pillole abortive rendessero l’aborto chirurgico e quello chimico difficilmente reperibili, si può immaginare che rarissimamente una donna sceglierebbe di tentare di procurarselo da sola, perché questo comporterebbe degli ovvi rischi.   

Forse il pro-choice che pone un’obiezione simile ha in mente il fatto che l’aborto, oltre ad essere fisicamente possibile in un gran numero di situazioni che non è possibile sorvegliare (come qualsiasi omicidio) può essere compiuto senza lasciare sostanzialmente tracce di quanto è avvenuto. Questo ci porta all’obiezione 3.

Qui possiamo iniziare osservando che se non si può fare qualsiasi cosa pur di prevenire l’omicidio, tanto meno si può al fine di punirlo. Se veramente determinate modalità di indagine sull’aborto mettessero a rischio delle persone, bisognerebbe limitarsi ad altre modalità, e questo non toglierebbe la possibilità di sanzionare l’uccisione intenzionale di un bambino nel grembo materno qualora si rivelasse palesemente essere quanto accaduto.

Ad ogni modo, non c’è nulla nella posizione pro-life che implichi queste conseguenze. In primo luogo, esiste un principio fondamentale del diritto chiamato “presunzione di innocenza”. In base ad esso, si viene ritenuti innocenti fino a che la colpevolezza non viene dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio. Non si capisce come un giudice possa convincersi che una donna si sia senza dubbio procurata un aborto quando non è così. Di più, bisogna considerare che purtroppo l’aborto spontaneo è un fenomeno piuttosto frequente (circa il 20% delle gravidanze confermate). Se si confronta questo dato con quello che sappiamo sull’aborto clandestino in Italia prima della legge 194 (secondo le stime più attendibili circa 20.000 aborti clandestini all’anno rispetto a circa 816.000 nascite) abbiamo che in tali circostanze terminava in aborto volontario circa il 2% delle gravidanze. Possiamo anche immaginare che nella maggior parte dei casi questi aborti clandestini restassero interamente clandestini, e che la donna non si trovasse in nessun momento a dover spacciare l’aborto indotto per spontaneo davanti ad un medico. Per questo nel mondo che i pro-life auspicano non sarebbe ragionevole neanche sospettare di una donna che si presenti da un medico dicendo di aver avuto un aborto spontaneo, a meno che qualcosa di decisamente anomalo supporti tale ipotesi.

Abbiamo visto che tutte e tre le obiezioni in esame sono decisamente inconsistenti. Non c’è proprio niente nella posizione pro-life che implichi queste conseguenze ampiamente oltre il limite dell’assurdo. Viene allora da chiedersi perché si sentano ripetere così spesso e vengano prese così sul serio.

La spiegazione più semplice è che si tratti di un caso di straw-man argument, in italiano detto “argomento fantoccio”. Si tratta di fraintendere volutamente la posizione dell’interlocutore al fine di renderla più facilmente criticabile. Così «bisogna prevenire l’aborto» diventa «bisogna sacrificare qualunque cosa pur di prevenire l’aborto» e «bisogna punire l’aborto» diventa «bisogna punire l’aborto senza alcuna pietà,  nessun limite e nessuna prudenza».

Vi è un’altra possibile spiegazione, non in competizione con la prima, che sembra tanto più adeguata quanto più si fa esperienza degli atteggiamenti e dei modi di pensare dei più convinti e attivi sostenitori dell’aborto.

I pro-choice potrebbero semplicemente star proiettando i loro meccanismi di pensiero sui pro-life.

Ragioniamo: una parte dei pro-choice più feroci sono femministe militanti, ed anche quelli che non lo sono condividono spesso con loro una visione della società che identifica nettamente una serie di categorie (maschi, bianchi, etero, ecc.) come almeno sospetti di complicità in fenomeni di oppressione e discriminazione creduti unidirezionali e contro i quali si cerca una rivalsa esplicitamente o meno. Basta guardare con la coda dell’occhio per rendersi conto della rabbia che anima spesso certi gruppi e movimenti, e di come essi siano disposti a far scendere un velo di sospetto su ampissime categorie di persone. Inoltre alcune femministe sono apertamente contrarie alla presunzione d’innocenza.

Con questa consapevolezza, guardiamo di nuovo alle tre obiezioni discusse in questo articolo. La 1 e la 3 suppongono una mentalità estremamente punitiva, ed in particolare la 3 vìola la presunzione di innocenza. La 2 suppone che uno veda l’intero genere femminile come pronto a macchiarsi di una colpa orribile da un momento all’altro. Niente di tutto questo appartiene al movimento pro-life, che si interessa primariamente di proteggere piuttosto che di punire e che è composto in gran parte di donne con un’alta considerazione del loro sesso di appartenenza. Ma cosa succede se un gruppo di persone con il chiodo fisso di punire il capitalista sfruttatore, il maschio stupratore, il bianco razzista, l’eterosessuale omofobo, deve cercare di immaginare come pensano i pro-life? Ecco improvvisamente che questi ultimi diventano (in un mondo di fantasia) dei misogini spietati. In altre parole, quando non puoi far scendere l’avversario al tuo livello nella realtà puoi farlo almeno nella tua mente.

Matteo Casarosa

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