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Il ruolo del linguaggio nella percezione della realtà

La razionalizzazione, termine preso in prestito dalla psicologia, è quel processo mediante il quale la nostra mente si sforza di trovare giustificazioni ai nostri atti/pensieri, al fine di renderli compatibili con la nostra coscienza, ed evitare così angosce e sensi di colpa. Si tratta di un normale meccanismo di autodifesa che adottiamo quotidianamente e spesso inconsapevolmente.

Ciò non toglie il fatto che sia bene rendersi conto di quando entri in gioco la razionalizzazione, e quindi discernere ciò che è giusto e ciò che invece è semplicemente auto-giustificato.

Il linguaggio, di suo conto, può risultare un grande nemico della razionalizzazione. Tradurre i concetti in parola, scritta o orale, è il primo passo verso la loro oggettivazione. Oggettivare significa creare una distanza tra il soggetto e l’oggetto, affinché il soggetto abbia la possibilità di guardare all’oggetto come altro da sé, e poterlo giudicare per sé stesso. Dare il nome alle cose significa dare loro un posto innanzi a sé.

Il problema nasce quando il linguaggio inizia ad essere piegato, smussato, edulcorato, incastrato, così da non avere più una relazione diretta con l’oggetto, ma con la percezione soggettivistica che se ne ha, e solo indirettamente con l’oggetto stesso.

Ecco perché il corretto (ed onesto) uso del linguaggio può entrare in conflitto col meccanismo di razionalizzazione: il linguaggio ha lo scopo di “nominare” il reale e rendere comunicabile la verità; la razionalizzazione ha lo scopo di proteggere la psiche, anche a discapito della verità. Quando i due scopi non sono più parallelamente perseguibili, la mente tenta di autoconvincersi che ciò che le faccia comodo sia giusto sia realmente giusto, ed evitare così cortocircuiti interni.

E qual è il primo modo di rendere giusto (appunto “giustificare”) qualcosa che giusto non è: cambiargli nome, dargli un posto che non è il suo nel processo di oggettivazione innescato dall’uso del linguaggio. Ecco che qualsiasi cosa, edulcorata a dovere, può risultare accettabile.

Ciò può non essere grave quando si tratta di dare al nostro “Arrivare in ritardo” il nome di “Non passava l’autobus” / “Non ha suonato la sveglia” invece del suo vero nome “Non ho saputo gestire il tempo”, o casi simili.

Il tutto diventa assai più grave quando riguarda pratiche deplorevoli. Non chiamare le cose con il proprio nome ne modifica inevitabilmente la percezione, rendendo giustificabile ciò che la coscienza, o semplicemente il buon senso, suggerisce essere sbagliato.

Una donna incinta dice “aspetto un bambino”, ma quando si tratta di aborto si ha l’accortezza di definire l’embrione o il feto – la cui etimologia dovrebbe far riflettere – “grumo di cellule”, perché uccidere un bambino è omicidio, rimuovere un grumo di cellule (alla stregua di una cisti) è una cura a cui si ha pieno diritto… eppure, nei fatti, sono la stessa cosa.

Ormai non si parla neanche più di aborto, ma di “interruzione volontaria di gravidanza”, locuzione che sposta l’attenzione sulla volontarietà, e quindi sull’attraente mito dell’autodeterminazione, piuttosto che sull’orrore di tale pratica per entrambi i soggetti coinvolti, vero fulcro della questione.

E che dire dell’acquisto temporaneo (9 mesi circa) dell’utero di una donna alla quale verrà sottratto il proprio figlio in cambio di soldi, meglio noto come “utero in affitto”, ma meglio accettato come “maternità surrogata” … Gli esempi sono molteplici.

È chiaro dunque che la “profanazione” del linguaggio, la sua manipolazione, la sua sofisticazione, sono armi potentissime per assoggettarlo a scopi poco nobili che non gli sono propri. È bene dunque tornare a farne un uso corretto, di servizio alla verità e alla sua comunicabilità.

Arianna Trotta

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