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Vogliamo combattere davvero la battaglia pro-life? Rigettiamo l’emotivismo.

In copertina: Giorgio de Chirico (1888-1978), Due cavalli in riva al mare (dettaglio), 1964. L’immagine ci rimanda al mito platonico della biga alata, secondo cui l’auriga deve saper guidare insieme un cavallo bianco e obbediente (simbolo dell’anima razionale) e uno nero e disobbediente (simbolo dell’anima concupiscibile, soggetta alle passioni), facendo attenzione affinché quest’ultimo non prevalga mai sul primo.

Qualche tempo fa, pubblicammo un articolo sull’emotivismo. Data la sua attualità, si rende necessario ritornarci sopra. L’uomo è una creatura unica nel suo genere, in quanto ha un’anima razionale che animali e piante non hanno. È questo che consente all’uomo di agire liberamente e, quindi, di essere responsabile dei propri atti, a differenza di quanto accade con gli animali (ad esempio: nessuno si sognerebbe di mettere a processo un gatto perché ha graffiato qualcuno, perché il suo agire per istinto non permette imputabilità dell’atto). Quanto affermato, seppure in estrema sintesi, è attestato dalla ragione ma anche dall’esperienza di chiunque. Ora, l’uomo ha tre facoltà principali: intelletto, libera volontà e sensibilità (o passioni)[1].

Il primo serve a individuare e discernere i fini che ci poniamo di raggiungere (ad esempio, l’aumento della conoscenza, la preservazione della salute, la conservazione della propria vita e di quella altrui). Ci sono fini che riconosciamo immediatamente come buoni in virtù della nostra natura razionale (come gli esempi fatti), altri dei quali acquisiamo consapevolezza formandoci, studiando e approfondendo. Da qui, l’importanza prioritaria della formazione prima di intraprendere la battaglia pro-life.

La seconda è lo strumento attraverso il quale l’uomo si determina e decide di raggiungere un fine precedentemente individuato (ad esempio, decidendo di studiare, di fare sano esercizio fisico e mangiare senza eccessi, di agire in difesa di se stessi o dei propri cari in una situazione di pericolo). Si noti che la conoscenza del fine è certamente condizione necessaria ma non sufficiente per raggiungerlo: è vero che chi non riconosce come fine l’accrescere la conoscenza non si metterà mai d’impegno a studiare, ma è altrettanto vero che, pur riconoscendolo, se non ci si determina a studiare (con la libera volontà) il suo raggiungimento è impossibile.

La terza, ordinariamente, serve da un lato a desiderare il fine riconosciuto dall’intelletto e dall’altro a rimuovere qualsiasi ostacolo al suo ottenimento per poi agire. Sempre nell’esempio dello studio, si deve desiderare l’aumento della conoscenza (non solo in vista di un bel voto) e lottare contro la pigrizia che spinge a fare meno sforzi possibili, dopo di che mettersi d’impegno e studiare.

Quando c’è un ordine stabile tra queste facoltà ed esse lavorano in armonia, l’uomo agisce rettamente, dirigendosi con prontezza verso dei fini (o, equivalentemente, dei beni) che sono oggettivamente tali. Quest’ordine si manifesta attraverso una equilibrata gerarchia delle suddette facoltà, dove le passioni, pur avendo un ruolo importante, sono l’ultima ruota del carro.

I problemi subentrano laddove si sovverte questa gerarchia e, di conseguenza, all’ordine subentra il dis-ordine. In particolare, se le passioni si sostituiscono all’intelletto nel riconoscimento del bene da raggiungere, si sfocia nell’emotivismo. L’emotivismo, teorizzato dal filosofo britannico Alfred Jules Ayer (1910-1989), è quell’insieme di teorie etiche che, nel corso del Novecento, soprattutto in ambito anglosassone, hanno proposto di rendere conto dei giudizi morali in termini di emozioni e di sentimenti, cioè dando un predominio assoluto alle emozioni su tutte le altre facoltà.[2][3] Dunque, può, succedere che si inganni la propria volontà e la si diriga verso qualcosa che appare come un bene ma che, oggettivamente, non lo è.

Questa è la dinamica dell’uomo che fa il male credendo che sia un bene per sé o per altri: vale anche per aborto, eutanasia, suicidio assistito e molto altro. L’uomo che giudica solo con le proprie passioni e non con l’intelletto, si auto-acceca e finisce per compiere o sostenere colpevolmente anche i delitti più efferati. In genere, almeno all’inizio, l’intelletto prova a dare un avvertimento, un monito, per provocare un sussulto della coscienza. Dopo di che, quando le passioni hanno preso il sopravvento in maniera sistematica e continuativa nel tempo, esso si atrofizza, si tacita, diventa incapace di riconoscere il vero bene.

Proprio per questo, i pro-life per primi devono fare attenzione a tali dinamiche, altrimenti qualunque sforzo fatto finora in difesa della vita verrebbe vanificato e porterebbe acqua al mulino degli avversari (da lungo tempo preda di passioni disordinate). Molti, fintanto che non sono toccati nelle corde dell’emotività, riconoscono che aborto, eutanasia, fecondazione artificiale, non sono affatto beni, ma l’antitesi del bene. Tuttavia, se anche una sola di queste cose tocca personalmente e, quindi, emotivamente si smette di ragionarci sopra e, piuttosto che esercitare un corretto discernimento e controllo dell’emotività, si diviene improvvisamente disposti a giustificare persino il male (spesso con impeto). Tutto ciò è chiaramente quanto accade, ad esempio, tra i pro-life con “eccezioni” o “ad intermittenza” come chi è contrario all’aborto in generale ma non se esso è conseguente ad uno stupro o ad una malformazione, o chi è contrario all’aborto ma non all’eutanasia o anche chi si batte per l’ingiustizia di aborto ed eutanasia ma guai se si mette in discussione la fecondazione artificiale. E via discorrendo.

Ci sono tante situazioni diverse, tutte con un’unica matrice: l’emotivismo che prende il sopravvento sull’intelletto e sancisce ciò che è bene e ciò che non lo è, mettendo al primo posto la soggettività e non l’oggettività del reale. Non sono le emozioni a dirci che aborto, eutanasia e simili, sono dei mali ma l’intelletto che si adegua alla realtà! Dopo di che, con la libera volontà e con le rette passioni, una volta riconosciuto che la vita è un bene indisponibile, si diviene disposti a combattere per essa!

In tutto ciò serve coraggio: sì, il coraggio di anteporre la verità oggettiva del bene alle proprie emozioni e sensazioni. Queste, per loro natura, sono passeggere e non hanno sempre fondamento nella realtà, ma in noi stessi (che non possiamo mai essere la misura del bene e del male) e ciò le rende degli strumenti inadeguati per il riconoscimento stabile della verità.

In definitiva, sarà l’ordine armonioso delle facoltà della nostra anima a farci vincere questa battaglia, non il disordine generato dal travolgimento delle passioni o scaturito dall’emotivismo.

Fabio Fuiano


[1] S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-I, q. 77.

[2] Ayer A. 1936, Language, Truth and logic (trad. it. Linguaggio, verità e logica), Penguin books, Harmondsworth 1971, p. 110. Stevenson C. 1937, The Emotive Meaning of Ethical terms, in «Mind», XLVI, pp. 14-31. Per una “evoluzione” dei loro pensieri basata su una reinterpretazione della filosofia morale di Hume si veda: Schröder 2007, Slaves of Passions, Oxford University Press.

[3] Si veda la voce “emotivismo” nell’enciclopedia Treccani.

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