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Avvenire e la 194, un rapporto problematico

Domenica 22 maggio, il giorno seguente alla Manifestazione per la Vita tenutasi a Roma, il quotidiano della Conferenza Episcopale Avvenire ha pubblicato un articolo intitolato “Il popolo che dice «viva la vita»” a firma di Alessia Guerrieri. L’articolo, in se stesso, ha riportato una fedele ricostruzione dell’evento e degli interventi che si sono susseguiti, fornendone certamente una connotazione positiva. Sin qui ci si poteva ritenere quasi soddisfatti se non che, gettando l’occhio sulla sinistra della pagina del giornale, con stupore si scorge un breve trafiletto che recita:

«Da sapere – L’obiettivo della 194

Prima che un diritto è e resta una scelta drammatica ed estrema, quella dell’aborto. Che la legge italiana consente dal 22 maggio del 1978 nella misura in cui un bene giuridico costituzionalmente sancito – il diritto alla vita del concepito – si pone in insanabile contrasto con un altro di pari valore – la salute fisica e psichica della gestante. Ecco il vero spirito della legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, che traspare da tutto il suo testo e che tante sentenze hanno confermato nel corso degli anni. Lo Stato riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio, vi si legge nell’articolo 1. E riconosce, sì, il diritto ad abortire, ma imponendo ogni volta il tentativo di rimuovere le cause per cui esso viene chiesto e subordinandolo a procedure rigide».

Desta scandalo che su un giornale cattolico come Avvenire appaia un intervento del genere. Tale puntualizzazione non reca alcuna firma e dunque non v’è modo di risalire allo scrivente, sebbene questo approccio alla 194 sia ben noto anche tra le fila di alcuni autori che trattano temi bioetici nel medesimo giornale. Essenzialmente si sta sposando il punto di vista della 194, che è espressamente abortista per quanto sappia ben “mascherarsi”.

Uno studio approfondito della legge 194 e della sua genesi non può che convergere su una sola conclusione: essa voleva legalizzare l’aborto con la massima ampiezza, e questo risultato è stato raggiunto. I presupposti culturali su cui si fonda la legge 194 sono fondamentali per capirne la reale ratio. Mario Palmaro, nel suo libro Aborto & 194, li riassumeva in maniera molto efficace:

1. Centralità della donna: il problema dell’aborto è visto come questione esclusivamente femminile, che deve essere ricondotta nella sua esclusiva sfera di valutazione.

2. Esclusione del padre dalla decisione e perfino dalla conoscenza della stessa gravidanza; verrà interpellato se la donna lo ritiene opportuno, ma il peso del suo parere è nullo in riferimento alla scelta abortiva.

3. Rimozione del concepito dall’orizzonte del legislatore, che prende in considerazione esclusivamente la condizione della donna e le ragioni che la inducono a chiedere l’aborto.

4. Nessuna parte terza deve realmente intromettersi nella decisione della donna: tutte le sentenze che hanno interpretato la 194 hanno confermato la tesi più permissiva, in base alla quale il fatto che la donna chieda l’aborto nei primi 90 giorni è in sé causa sufficiente per comprovare che esiste una ragione per concederle il certificato.

5. Il concepito non ha alcun diritto. Le limitazioni – per altro blande – che sono poste alla pratica abortiva non sono direttamente e apertamente giustificate con l’esigenza di contemperare i diritti della donna con quelli del figlio. L’aborto viene escluso soltanto qualora il concepito sia giunto a una fase del suo sviluppo che ne rende plausibile la sopravvivenza. Il che sottolinea come la legge riconosca uno status giuridico soltanto al figlio già nato o che si dimostri in grado di sopravvivere fuori dal corpo della donna.

6. Il legislatore non assume una posizione di sfavore nei confronti dell’aborto per cui i colloqui di aiuto alla donna non sono mai collegati all’idea che si debba comunicare alla gestante una sorta di «sfavore» della collettività rispetto all’atto abortivo. Domina la logica della scelta per la scelta, cioè l’idea che il valore tutelato è la libertà di scelta della donna, che non può essere in alcun modo non solo conculcata, ma nemmeno condizionata.

7. La legge 194 assume in maniera declamatoria un principio, per poi fornire tutti gli strumenti giuridici idonei a eludere quello stesso principio, capovolgendo nei fatti il senso delle parole e dei propositi originari. 

8. All’articolo 1 della legge 194 si afferma che lo Stato tutela la vita umana fin dal suo inizio, ma non a caso si evita di chiarire che cosa si intenda per «inizio», essendo evidente che un eventuale riferimento al concepimento avrebbe innescato un conflitto logico rispetto alla pratica abortiva. 

9. A dispetto dunque delle premesse, la legge 194 introduce nell’ordinamento un anti-principio assai grave: il diritto di vita e di morte di un consociato nei confronti di un altro essere umano. Questo ius vitae ac necis – noto al diritto romano arcaico che lo riconosceva al pater familias sui membri della sua comunità – è assegnato alla donna in maniera totale ed esclusiva, senza che esista un qualsiasi strumento attenuativo di tale facoltà.

10. Questo effetto è ottenuto attraverso l’espediente della procedura, che caratterizza la 194 proprio come norma procedurale. Il legislatore, infatti, si astiene dal formulare un qualsiasi giudizio di valore sull’atto che va a rendere lecito, limitandosi a fissare un percorso che segna la linea di demarcazione fra ciò che è consentito e ciò che non lo è. 

11. Alcuni sostengono: la 194 è una buona legge, vediamo solo di applicarla bene. Si tratta di un’affermazione sbagliata. Perché, se è vero che questa legge non è stata applicata in tutte le sue parti, è altrettanto vero che sostanzialmente essa ha prodotto i risultati che portava nel suo DNA. È vero che la sentenza n. 27 del 1975 della Corte costituzionale italiana non aveva in alcun modo introdotto nell’ordinamento l’idea che l’aborto fosse un diritto della donna. Essa aveva invece legalizzato l’aborto, in una logica (sbagliata) di bilanciamento di diritti contrapposti. Però ogni tentativo di bilanciare questo potere di vita e di morte – per quanto lodevole e politicamente condivisibile – è destinato a fallire.

Concludiamo con le significative parole del prologo del medesimo libro: «So benissimo che da un po’ di tempo c’è una strana teoria che circola nel dibattito culturale e politico italiano. E l’idea è pressappoco questa: l’aborto è una gran brutta cosa. Addirittura un omicidio, si dice in linguaggio aspro e diretto. Ma, nonostante questo, la donna deve poter scegliere. Deve – se la logica ha ancora un senso – poter uccidere suo figlio.

Insomma: “aborto no, legge 194 sì”. Che sarebbe come dire: “Rubare no. Legalizzazione del furto sì” […]. All’uomo è chiesto, anzi è imposto, di trarre con coraggio le conseguenze della verità che riconosce davanti ai suoi occhi. Lo si deve fare anche se questo obbliga a posizioni scomode, di minoranza, o addirittura di minoranza nella minoranza. Anche se, insomma, c’è da pagare un prezzo». Avvenire e la Conferenza Episcopale Italiana sono disposti a pagare questo prezzo? Le premesse non sembrano consentirci di rispondere affermativamente.

Fabio Fuiano

Fonte: Corrispondenza Romana

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