Il caso del Mississippi alla Corte suprema.
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Lo scorso 01/12/2021 è iniziata presso la Corte Suprema U. S. A. (d’ora in poi SCOTUS) l’audizione degli argomenti delle parti contendenti nel caso battezzato Dobbs v Jackson Women’s Health Organization.
Questo caso sta attirando su di sé l’attenzione assidua dell’opinione pubblica statunitense, tra il trepidante entusiasmo del fronte provita e l’angosciante sconcerto di quello cosiddetto pro-choice.
In questo articolo mi propongo di fare sinteticamente il punto su tale caso, sulla sua importanza, e sulle prospettive del suo esito.
IL CASO IN SÉ
Nel 2018 lo Stato del Mississippi ha promulgato una legge, il Gestational Age Act, con la quale ha messo al bando gli aborti dopo la 15° settimana di gravidanza, salvo che nei casi di emergenza medica o di grave deformità del feto.
La Jackson Women’s Health Organization, che gestisce l’unica struttura autorizzata a compiere aborti nel Mississippi, ha impugnato la legge dinanzi al Tribunale federale, contestandone la costituzionalità.
Le Corti federali sia di primo grado sia di appello hanno dato ragione alla Jackson. A questo punto il Mississippi ha fatto ricorso alla SCOTUS, la quale, a grande sorpresa, lo scorso 17 maggio ha accettato di riesaminare il caso (qui).
IL CONTESTO
Negli U. S. A., a livello nazionale, l’aborto è fondamentalmente disciplinato da due sentenze della SCOTUS, quelle emesse nei casi Roe v. Wade (1973) e Planned Parenthood v. Casey (1992). Le altre sentenze su casi riguardanti l’aborto o sono state superate oppure intervengono su aspetti complessivamente secondari della questione.
La prima delle due suddette, con un ragionamento controverso e criticato anche da illustri progressisti (qui e qui), ha stabilito che il diritto (sic) all’aborto è tutelato dalla Costituzione statunitense, e in particolare dal XIV emendamento (1868), secondo il quale nessuno Stato della Federazione può privare qualsiasi persona della libertà senza un processo celebrato a norma di legge (sezione 1). Dal punto di vista dei giudici, infatti, proibire l’aborto tranne che per salvare la vita della donna (così diceva la legge del Texas allora presa in esame) costituiva un’eccessiva e indebita privazione della libertà della donna rispetto al proprio corpo (sic).
La seconda sentenza ha sancito che prima del periodo di viabilità, in cui il bambino è capace di vivere al di fuori del grembo materno (quindi tra la 20° e la 24° settimana di gravidanza), gli Stati praticamente non possono coartare la facoltà di una donna di abortire.
In seguito alla Planned Parenthood v Casey, la questione dell’aborto non è più stata direttamente affrontata. Tutte le volte che uno Stato ha promulgato una legge che coartava la possibilità di abortire, e quest’ultima è stata annullata d’autorità come incostituzionale dalle Corti federali inferiori, la SCOTUS ha sempre rigettato qualunque ricorso degli Stati con l’argomento che si trattava di questioni già risolte in precedenti pronunciamenti (cioè nelle due sentenze suddette).
Questo corso è stato rotto lo scorso maggio 2021, quando appunto la SCOTUS non ha rigettato more solito il ricorso del Mississipi, bensì lo ha accolto. Vale la pena considerare che a rinfocolare ulteriormente il dibattito già riacceso, è occorso pochi mesi fa anche il rifiuto della SCOTUS di bloccare d’urgenza l’entrata in vigore dell’Hearthbeat Bill del Texas, che proibisce l’aborto dopo che il battito cardiaco del bambino in grembo diventa rilevabile (intorno alle 6 settimane di gravidanze), salvo che in caso di emergenza medica.
Questi atti, uniti al fatto che al momento c’è una supermaggioranza di 6 conservatori su 9 Supremi Giudici totali, stanno alimentando su entrambi i fronti l’idea che la SCOTUS ribalterà Roe v Wade, e che quindi negli Stati Uniti l’aborto potrebbe nuovamente essere reso illegale.
Un’analisi più attenta, tuttavia, invita ad essere prudenti e a non dare per scontato il suddetto esito.
LA SCOTUS E I SUOI “LIMITI”
Paolo Carozza, docente alla Law school dell’Università di Notre Dame, ha detto alla rivista italiana Tempi: «I giudici sono indipendenti, non possono intestarsi una campagna politica in toga, non c’è contraddizione tra giudizio emanato e il loro approccio alla Costituzione che pertanto può portare a risultati diversi da quelli attesi, pur all’interno di un comune orientamento morale e politico» (qui).
Questa affermazione ha trovato eloquente conferma in molti casi, anche molto recenti. Ne riportiamo appena due a titolo esemplificativo. Quest’anno la SCOTUS ha dovuto pronunciarsi se fosse costituzionale un provvedimento della città di Filadelfia che penalizzava alcuni Istituti cattolici per il loro rifiuto delle cosiddette “adozioni gay”. È noto come questo tema susciti feroci divisioni e discussioni in campo politico tra Conservatori e Progressisti, anche in Italia. Nondimeno in questo caso i 3 giudici progressisti sono stati d’accordo con i 6 conservatori di maggioranza compatta e la SCOTUS ha emesso all’unanimità una sentenza “conservatrice” (qui). Stesso esito per un altro caso, altrettanto molto divisivo sul piano politico, se cioè fosse incostituzionale escludere dalla concessione della green card gli stranieri entrati negli U.S.A. come clandestini (qui).
D’altro canto, non è insolito che qualche giudice conservatore si schieri con quelli di orientamento opposto per una sentenza etichettabile (a volte in modo un po’ semplicistico) come progressista. Il caso più eloquente al momento è l’attuale presidente della SCOTUS, il giudice John Roberts, che, sebbene conservatore, si è associato ai giudici progressisti per bloccare l’Hearthbeat Bill del Texas (qui), o in favore di sentenze progressiste (qui e qui). Similmente, e ancor più eloquentemente, il giudice “trumpiano” Neil Gorsuch, che solitamente si associa ai giudici Thomas e Alito (i più radicalmente conservatori), l’anno scorso è stato l’autore della sentenza progressista forse più importante degli ultimi anni (sempre qui).
A questo punto, al fine di comprendere meglio la situazione e cosa è possibile aspettarsi, vale la pena chiarire alcuni punti relativi al pensiero giuridico statunitense. Devo avvertire che nel fare ciò, dovrò procedere, anche solo per motivi di spazio, a semplificazioni e approssimazioni anche estreme.
Innanzitutto va detto che in ambito giudiziario le qualifiche di “conservatore” e “progressista” non hanno esattamente le stesse valenze che in ambito politico.
Approssimativamente, un giudice si considera conservatore quando aderisce alle correnti chiamate “Testualismo” e “Originalismo”. Queste ultime affermano che la Costituzione statunitense va applicata così come sta scritta e il suo campo di applicazione non deve essere di estensione diversa da quella espressamente intesa dalla lettera del testo costituzionale e originariamente attribuitagli dal Legislatore.
Un giudice invece, approssimativamente, si considera progressista quando ritiene che della Costituzione si possa dare un’interpretazione e un’applicazione che, senza tradirne o sconvolgerne i principi fondamentali più profondi, vada oltre la lettera del testo e la sua originaria portata, e ciò soprattutto in quei casi che presentino situazioni non previste né prevedibili all’epoca in cui la Costituzione o i suoi emendamenti furono varati, o con un contesto giuridico e sociale diverso (anche molto o radicalmente) rispetto alla detta medesima epoca.
Naturalmente questa schematizzazione non si deve sempre intendere in maniera rigida: ogni giudice può benissimo adottare posizioni sfumate o mediane.
Un esempio di come queste due correnti operino nell’interpretazione della Costituzione statunitense è fornito proprio dalla sentenza Roe v Wade. Quest’ultima innanzitutto recepisce il disposto fondamentale di un’altra storica sentenza della SCOTUS, la Griswold v Connecticut (1965). Quest’ultima, con un approccio esemplarmente “progressista”, aveva stabilito che, pur non essendo esplicitamente dichiarato ma solo contenuto in penumbris in diversi luoghi, nella Costituzione era tutelato un diritto individuale alla privacy, da intendersi non alla maniera “ristretta” e “negativa” che abitualmente abbiamo in Italia – privacy cioè come diritto alla riservatezza dei propri dati personali e di quella parte della propria vita privata che non si vuole condividere con altri –, bensì in un senso molto più ampio e “positivo”, cioè come diritto a non avere limitazioni da parte di esterni, e in particolare dell’autorità pubblica, alla propria libertà individuale nell’uso di tutto ciò che attiene direttamente alla propria persona e nel quale l’autorità pubblica non possa avere un significativo interesse a intervenire (N. B.: Sto sempre semplificando e approssimando all’estremo).
Una volta individuato sul piano generale questo diritto alla privacy costituzionalmente garantito, la SCOTUS, nella Roe v. Wade, lo aveva poi a sua volta interpretato col medesimo approccio “progressista” in maniera tale da dedurre che in forza di esso l’autorità pubblica non poteva proibire la pratica dell’aborto, sebbene con variazioni a seconda di quanto fosse avanzata la gravidanza (NOTA: La detta sentenza Griswold del 1965 verteva di per sé sulla questione se uno Stato potesse proibire la fornitura di contraccettivi a coppie sposate, e aveva risolto che in forza del suddetto diritto alla privacy una tale proibizione era incostituzionale; la medesima SCOTUS, appellandosi allo stesso principio, ha poi dichiarato incostituzionali nel 1972 la proibizione della fornitura di contraccettivi anche a coppie non sposate, con la sentenza Eisenstadt v. Baird, e poi nel 1973 – appena un anno dopo – quella dell’aborto con le sentenze Roe v. Wade e Doe v. Bolton. Questo potrebbe valere come monito per chi, anche nel fronte provita, dice: “Aborto no, ma contraccezione sì”).
Dalla parte opposta, i giudici conservatori criticarono e tuttora criticano una simile interpretazione del diritto alla privacy con l’argomento essa in realtà non è né espressa né sufficientemente individuabile nella lettera del testo costituzionale e nella sua portata originaria. Privo in tal modo di qualunque regolamentazione di livello federale, l’aborto, in forza del X emendamento, doveva considerarsi una materia di esclusiva competenza dei singoli Stati dell’Unione.
Da questa argomentazione, si può trarre un ulteriore motivo per cui conviene andarci cauti prima di dire che un giudice conservatore è un giudice che può avvantaggiare la causa provita. Se infatti nel caso attualmente in esame alla SCOTUS si giungesse al ribaltamento della Roe v. Wade in forza di questa critica conservatrice appena riportata, ciò non implicherebbe una messa al bando dell’aborto negli U. S. A., ma solo che l’aborto non sarebbe più un affare di competenza dell’autorità federale nazionale, bensì soltanto di quella dei singoli Stati dell’Unione, ognuno dei quali poi sarebbe libero di regolare la materia come meglio ritenesse opportuno. Texas e Arkansas potrebbero allora porre un bando praticamente totale dell’aborto, ma allo stesso tempo Virginia e New York sarebbero parimenti liberi di consentire l’aborto fino al nono mese.
Tale prospettiva sembra resa ancor più verisimile dal seguente fatto. Nella discussione del caso Roe v. Wade, a un certo punto si argomentò che la legge antiabortista del Texas (che proibiva qualunque aborto tranne che per salvare vita della madre) era conforme alla Costituzione perché il XIV emendamento (l. c.) proibisce agli Stati di privare qualsiasi persona della vita senza un giusto processo. La SCOTUS nella sentenza (§§ 86 – 88) rigettò questo argomento rispondendo che dalla lingua tecnica d’uso sia nella Costituzione in generale, sia nel XIV emendamento in particolare, sia nelle epoche in cui queste leggi erano state approvate, non constava chiaramente che il termine giuridico “persona” indicasse anche il non ancora nato, e anzi, il fatto che per la gran parte dell’Ottocento l’attitudine delle leggi verso l’aborto sembri essere stata molto meno repressiva che in seguito, suggeriva che il XIV emendamento non intenda come “persona” anche il non ancora nato.
A prescindere dalla correttezza o meno di questa tesi (non mancano infatti serie ragioni per contestarla – vedi qui), sembra comunque innegabile che essa muova da un approccio conservatore nell’interpretazione della Costituzione. Tra l’altro i due Supremi Giudici conservatori che dissentirono dall’opinione della SCOTUS nella Roe v. Wade, criticarono quest’ultima per la tesi del diritto alla privacy e per la sua intromissione in una materia ritenuta di esclusiva competenza dei singoli Stati, ma non misero parola sulla questione se il XIV emendamento tutelasse o meno la vita dei non ancora nati.
Oltre alle caratteristiche del peculiare orientamento dei giudici, un altro fatto che ancor più che altro potrebbe portare la SCOTUS a una sentenza deludente per le aspettative dei provita, è il principio, fondamentale nei Paesi di common law come gli U.S.A., dello stare decisis, cioè che laddove in un’occasione la SCOTUS si sia già pronunciata in un certo senso su una determinata questione, allora, in linea di principio, ciò che essa ha deciso in quell’occasione deve essere mantenuto.
Potrebbe quindi capitare che qualche giudice conservatore, pur ritenendo sbagliata la Roe v. Wade, si pronunci comunque per il suo mantenimento in forza del principio dello stare decisis. Così è accaduto in modo clamoroso nel 1992 con la Planned Parenthood v. Casey, quando nella SCOTUS i giudici considerati conservatori non erano 6 come ora, ma addirittura 8 su 9, e nondimeno allora la metà (4/8) dei giudici conservatori si associò all’unico progressista per il mantenimento della Roe v. Wade, pur con importanti revisioni. In maniera simile sembra propenso a ragionare l’attuale Presidente della SCOTUS, il giudice conservatore Roberts, il quale, ancor più negli ultimi anni, ha difeso sentenze progressiste contro i colleghi conservatori non perché ne ritenesse del tutto corrette le ragioni, ma appunto per il principio dello stare decisis, interpretato, a quanto sembra, in una versione particolarmente rigida.
C’è infine un ultimo fatto da considerare, e che potrebbe indurre i giudici a prendere una decisione significativa, ma solo fino a un certo punto, e cioè le pretese modeste da cui è partito il ricorso del Mississippi. La legge di quest’ultimo infatti non bandisce l’aborto in generale, ma solo quello dopo le 15 settimane di gravidanza, e comunque con eccezioni significative. Inoltre, il Mississippi solo di recente si è spinto a chiedere il ribaltamento completo della Roe v. Wade, ma la formulazione originaria del suo ricorso, depositato l’anno scorso quando ancora era in carica il giudice progressista Ginzburg e la SCOTUS non aveva la supermaggioranza conservatrice, si asteneva da tale richiesta, e, per come è stato accolto dalla SCOTUS, si limita a chiedere solo se siano incostituzionali tutte le restrizioni all’aborto prima del periodo di viabilità del bambino.
Posto in questi termini, il caso del Mississippi può portare a ribaltare la Planned Parenthood v. Casey, ma non necessariamente anche la Roe v. Wade.
PROSPETTIVE
Considerato dunque quanto detto, cosa ci si può aspettare dalla SCOTUS, il cui verdetto è atteso per il giugno 2022?
Al momento, tenuto conto dell’orientamento e della storia degli attuali Giudici Supremi, si può fin da ora presumere con sufficiente sicurezza che: i tre progressisti, Breyer, Kagan, e Sotomayor, si opporranno compatti a qualunque ribaltamento in senso conservatore sia della Roe v. Wade sia della Planned Parenthood v. Casey; all’esatto opposto, il giudice Thomas ribadirà risolutamente la sua richiesta di un ribaltamento totale della Roe v. Wade, ed è probabile che il giudice Alito gli si assocerà; il Presidente Roberts, presumibilmente, appellandosi allo stare decisis, si opporrà con i progressisti al totale ribaltamento della Roe v. Wade, ma d’altro canto accetterà una revisione di questa in senso conservatore.
Restano i tre giudici “trumpiani”, Gorsuch, Kavanaugh, e Barret: di questi sembra abbastanza sicuro che appoggeranno una revisione in senso conservatore della Roe v. Wade, ma ancora non appare del tutto chiaro se nel senso “radicale” di Thomas, o in quello “moderato” presumibilmente del Presidente Roberts.
Di Gorsuch si sono già detti gli elementi di grande speranza e di preoccupazione. Kavanaugh e Barret si sono finora distinti per un conservatorismo deciso, ma spesso anche più moderato rispetto alle attese. Barret, poi, se da un lato è storicamente critica di un’adesione troppo rigida allo stare decisis, dall’altro sembra aver mostrato sinora una certa riluttanza a ribaltare precedenti sentenze della SCOTUS più di quanto qualche caso sul momento in esame necessariamente richiedesse (qui), e quindi, tenuto conto delle suddette modeste richieste del Mississippi, potrebbe non essere sorprendente se alla fine lei adottasse (come fatto già altre volte) la posizione più “moderata” ritenendo che nello specifico caso in questione non ci siano i termini per arrivare a sostenere quella “radicale”.
Concludendo, sono due al momento gli scenari più probabili:
- La SCOTUS ribalta completamente la Roe v. Wade e la giurisprudenza ad essa conseguente, e quindi l’aborto torna, come prima del ’73, una materia di esclusiva competenza dei singoli Stati dell’Unione;
- La SCOTUS conserva il cuore della Roe v. Wade, cioè che l’aborto è un diritto (sic) individuale garantito dalla Costituzione, ma rivede la sentenza e la giurisprudenza ad essa conseguente nel senso che i singoli Stati abbiano il potere di porre restrizioni maggiori e più dure rispetto a quanto attualmente loro consentito; spiace dirlo, ma al momento questo potrebbe essere lo scenario più probabile (anche se di molto poco rispetto al precedente).
Un terzo scenario, in cui la SCOTUS stabilisca che il non nato gode della tutela della vita di cui nel XIV emendamento, e che pertanto l’aborto legale deve considerarsi contrario alla Costituzione in tutti gli Stati Uniti (fatta forse eccezione per pochi casi particolari), sebbene più auspicabile, appare purtroppo decisamente inverosimile.
Jacopo Dellapasqua