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La luce dell’ente

Il precedente articolo è stato concluso riportando che è possibile considerare la sostanza con tre nomi, ossia con res naturae, subsistentia e hypostasis.[1] Prima di capire in che modo sia possibile indicare la sostanza con tali nomi e quale sia il loro significato, ricordando che l’ente è prima di tutto la sostanza (la sostanza è ciò che gode anzitutto di «sussistenza», ha la sua «determinatezza» ed è «separata», ossia non ha bisogno di nessun’altra realtà per essere se stessa)[2], sarebbe opportuno chiarire la nozione di ente nell’intelletto. Tale punto è già stato parzialmente chiarito, ma si ritiene opportuno un maggiore chiarimento.

Il fatto che l’ente sia la prima cosa che cade nell’intelletto[3], è un dato di fondamentale importanza non solo per l’aspetto metafisico, ma per tutto, e non è un’esagerazione. Infatti, prima di ogni altra cosa l’intelletto concepisce l’ente[4], per cui la primissima concezione dell’intelletto è l’ente[5]. È ovvio che la prima parola o le prime parole del bambino saranno «mamma» o «papà» e non «ente» o «ente in quanto ente», ma se mancassero gli enti (persone) “mamma e papà”, il bambino non avrebbe modo neanche di pensarli. Si capisce, già da questo momento iniziale, come non sia possibile l’approccio metafisico a partire esclusivamente dal pensiero facendo a meno dell’ente. Infatti, un approccio che partisse esclusivamente dal pensiero, prescindendo da quella realtà concreta che è l’ente, mancherebbe di conformità alla realtà stessa, fino al punto da richiedere che sia la realtà ad adeguarsi all’intelletto e non l’intelletto alla realtà. Le conseguenze pratiche potrebbero essere quelle di stabilire ciò che una cosa sia, a prescindere dalla realtà di quella stessa cosa. Es. quali sarebbero i parametri di valutazione per stabilire se un essere umano sia più o meno umano? È possibile che la propria umanità subisca delle alterazioni o addirittura annullamenti? La vita, soprattutto quella umana, è un bene inestimabile oppure è possibile stabilire gradualità e concludere che la vita di un determinato essere umano valga più o meno di un altro? Domande che non dovrebbero neanche sorgere, ma che sorgono proprio perché si pretende di fare a meno della realtà, avanzando con la pretesa di volerla plasmare a piacimento. Proprio per questo il pensiero contemporaneo arriva alla de-umanizzazione di certi esseri umani come il concepito (legittimando l’aborto) o il malato alla fine della sua vita (legittimando l’eutanasia). Sembra assurdo, ma è ciò che stiamo vivendo.

Come prima cosa, un approccio del genere è del tutto arbitrario, oltre al fatto che lo stesso intelletto non può prescindere dall’ente, pena la sua inattivazione. Ed è proprio vero che «nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu» (nulla è nell’intelletto che prima non sia stato nei sensi), e la nostra conoscenza non può prescindere dai sensi. Pertanto, una posizione che non parta dai sensi non sarebbe neanche reale. Se una cosa non «è», allora non è possibile pensarla. Inoltre, tutto ciò che noi pensiamo fa riferimento all’ente, anche qualora si pensasse ad una creatura mitologica quale il minotauro, il quale «non esiste» nella realtà, ma la pensabilità del medesimo è possibile a partire da ciò che «esiste». Vediamo in che modo. Il minotauro o «toro di Minosse» è una creatura mitologica per metà uomo e metà toro, per cui non esiste nella realtà. Qualcuno allora potrà affermare che sia possibile pensare qualcosa che non esiste nella realtà, e che quindi non sia indispensabile dare priorità al reale, in questo caso a ciò che vi è di più reale, ossia l’ente. Il pensiero sembrerebbe poter fare a meno dell’ente. Ma è proprio così? A ben vedere no: nonostante il minotauro sia il risultato di un pensiero, tale pensiero non ci sarebbe stato se fossero mancati l’«essere umano» e il «toro», due «enti» appunto. Persino il «non-ente», così come il «nulla», il «niente»[6], per essere pensati presuppongono l’«ente», e nonostante questo non sarà mai possibile pensare al nulla in quanto tale. Ed ecco che l’ente è ciò che per primo cade nell’intelletto e ogni nostra conoscenza lo presuppone come base, così come un grattacielo con tutte le sue divisioni e funzioni interne: se mancassero le fondamenta, indispensabili per qualunque edificio, mancherebbe l’intero grattacielo. Pertanto, l’intelletto «esercita la nozione di ente» e lo fa da sé, prima di ogni altra attività, appunto perché l’ente è ciò che di più concreto vi è nella realtà. È come se fosse la fonte elettrica per lampadina: se mancasse tale fonte, la lampadina non si accenderebbe. La fonte elettrica deve sempre essere presente se si vuole rimanere ancorati nella realtà.

(Continua …)

Gabriele Cianfrani


[1] Cfr. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 29, a. 2. 

[2] Si rimanda al precedente articolo per maggiori chiarimenti.

[3] Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 55, a. 4 ad 1um.

[4] Questo è possibile capirlo soprattutto se si considera quel che è stato riportato nel precedente articolo, in merito all’esercizio forte dell’essere da parte dell’ente, che rimanda a quel primato ontologico dell’ente per cui non ha bisogno di supporti ontologici per esser tale. Infatti, la «sussistenza» è propria della sostanza, propria dell’ente, per cui ha l’essere per sé e non in altro. L’ente si riconferma come l’«id quod est – ciò che è».

[5] Cfr. Tommaso d’Aquino, De Veritate, q. 1, a. 1.

[6] Spesso si parla del «nulla» come se fosse qualcosa su cui argomentare, come se si possedessero argomenti per discutere sul «nulla». E quali sarebbero questi argomenti, se il nulla di per sé «non è», e ogni argomentazione è frutto della conoscenza? Se il «nulla» ammettesse argomenti e in tal modo la possibilità di conoscenza, non sarebbe più nulla, ma qualcosa. Il punto è che il «nulla» può essere considerato come «ente di ragione», ma non come «ente reale», poiché semplicemente «non è». Anche in questo risulta necessario l’ente. Il «nulla» semplicemente non può essere argomentato con argomenti propri. In logica, l’«argomentazione» è l’espressione del ragionamento. È possibile ragionare sul nulla a partire dal nulla? Forse sì, ma il risultato sarebbe… nulla.

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