A Venezia va in scena il festival dell’omicidio legalizzato

Nella 78ma edizione della Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, svoltasi dall’1 all’11 settembre scorso, al Lido della città lagunare, si è consumato uno scandalo di gravità inaudita, anche se, purtroppo, non totalmente inaspettato, considerato il clima culturale imperante nella nostra società e la profonda corruzione morale, riflessa ed allo stesso tempo alimentata da forme artistiche quali il cinema. Ha, infatti, ricevuto il premio del Leone d’oro al miglior film una pellicola, intitolata “L’Evenement” (titolo italiano “12 settimane”), che costituisce un eminente inno propagandistico al presunto “diritto” di aborto, contrapponendosi squallidamente al più elementare e basilare senso della realtà, della verità e della giustizia, poiché nega il primo e più importante dei beni, quello della vita.
Il film è l’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo autobiografico dell’autrice francese Annie Ernaux, scritto nel 2000, e racconta la storia di Anne, una studentessa universitaria di letteratura che nel 1963, all’età di 23 anni si trovò a vivere una gravidanza inaspettata, ma soprattutto indesiderata. La giovane, di umili origini, mirava, infatti, ad elevare il suo stato sociale e, per tale scopo, un bambino avrebbe rappresentato un grosso impedimento. Doveva, pertanto, “scegliere” tra un figlio scomodo ed un aborto clandestino. Per non essere, dunque, condannata a quella che reputava una vita di povera e inutile madre casalinga, optò tragicamente per uccidere il suo piccolo, al terzo mese di gestazione. Tale decisione ovviamente, viene presentata dal film come lodevolmente “coraggiosa”, in un’epoca in cui in Francia l’aborto era ancora illegale, poiché fu depenalizzato a partire dal 1975.
Già qui possiamo osservare la presenza di tutti i principali cavalli di battaglia dell’abortismo: lo svilimento e la disumanizzazione del concepito con la conseguente “scelta” di vita o di morte sul figlio che spetterebbe alle donne; l’idea per cui la condizione di mamma che svolge lavori domestici sarebbe mesta, umiliante e lesiva della dignità femminile, mentre per la propria realizzazione umana e professionale bisognerebbe distaccarsi da tale prospettiva e rinunciarvi a priori, liberandosi di qualunque impedimento o ulteriore responsabilità, commettendo persino un omicidio; la presentazione di ogni legge contraria all’aborto come oppressiva, arcaica e totalitaria e la disobbedienza ad essa come atto sacrosanto e meritevole di ogni approvazione ed ammirazione. Come se il bimbo nel grembo materno non fosse già un piccolo essere umano innocente, degno di ogni cura e protezione possibile, la sua vita non fosse intoccabile come il suo diritto ad essa; come se una casalinga avesse minor valore o dignità di qualsiasi altra persona in qualunque altra condizione lavorativa ed essere madre fosse un ostacolo alla realizzazione personale, quando, invece, proprio in questo consiste, per stessa costituzione femminile, la realizzazione essenziale e più elevata di ogni donna; come se una legge che proibisce e punisce l’omicidio fosse sbagliata, da boicottare ed eliminare con ogni mezzo, invece che intrinsecamente abominevole, deprecabile e piuttosto, una corruzione della legge.
La protagonista, infatti, era risoluta nel suo proposito, perché si sentiva derubata della sua presunta “libertà di decidere del proprio corpo”, come se non si fosse trattato, invece, del corpo di suo figlio e della sua vita, unica e irripetibile. Voleva sbarazzarsi di quel “peso” in una società che considerava retrograda e maschilista, solo perché aveva l’“ardire” di tutelare concepito innocente. La riuscita finale della giovane nel proprio intento è stata, naturalmente e tragicamente, salutata dal pubblico e dalla giuria con esultanza di giubilo, in una pioggia di critiche positive. Si è detto che a prevalere, infine, “è il corpo finalmente liberato di una donna”, neanche si fosse trattato della sua prodigiosa guarigione da una grave malattia mortale o invalidante.
La stessa regista Audrey Diwan ha avuto l’ardimento di affermare che non è un film sull’aborto, ma sulla libertà delle donne ed ha confessato:
“Da giovane ho dovuto abortire, ma l’ho potuto fare legalmente, in ospedale, in tutta sicurezza, senza rischiare la vita (ma di fatto condannandone un’altra ndr.). Alle generazioni precedenti questo non era possibile ed ancora oggi non lo è in Paesi come ad esempio la Polonia. Un tema così è molto urgente […] tanti diritti acquisiti negli ultimi decenni dall’universo femminile sono di nuovo messi in pericolo”[…] un modo di togliere potere alle donne, privarle di diritti fa parte di una guerra di potere con gli uomini”.
Alla fine, pertanto, pare che a muovere queste azioni sia fondamentalmente una mera e iniqua ambizione di potere, seme di ogni corruzione umana, in una lotta insensata al genere maschile.
Ci troviamo di fronte ad un sovvertimento radicale della realtà, della verità, della giustizia, dei concetti di bene e male, di diritto e delitto, in un generale offuscamento delle coscienze, in un mortifero avvelenamento delle menti e degli animi delle persone del nostro tempo. Verrebbe da chiedersi cosa sarebbe accaduto e quali reazioni avrebbe suscitato questo film se, invece di “aborto”, si fosse detto “omicidio” e se, invece di un bambino alla dodicesima settimana di gestazione, si fosse trattato di uno già nato da dodici giorni o tre mesi.
È evidente la profonda ipocrisia dimostrata in tutta questa vicenda.
Ciononostante, l’immancabile riferimento ed il vile attacco alle legislazioni, come quella polacca, che ancora impongono forti limitazioni all’aborto, fa emergere la forte preoccupazione di femministe come la Diwan a fronte delle recenti vittorie pro-life, e questo deve essere per tutti noi sprone ad intensificare i nostri sforzi nella lotta all’aborto e alla legislazione abortista. È fondamentale organizzare e condurre, con ancor maggiore determinazione, una controffensiva culturale e materiale, a cominciare dalla promozione del film “Unplanned”, che uscirà nelle nostre sale ufficialmente i prossimi 28 e 29 settembre (qui trovate tutte le date e le città con le anteprime). Esso narra la vera storia di Abby Johnson, ex direttrice di una clinica della Planned Parenthood, divenuta una della più grandi attiviste pro vita del mondo dopo aver visto coi propri occhi la realtà agghiacciante dell’aborto, realtà che questa pellicola mette in luce in modo mirabile e totalmente veritiero. Per tale ragione, data l’iniquità dilagante, essa è stata censurata e vietata ai minori di 14 anni, al contrario del film “L’Evenement” premiato e fatto oggetto di plauso internazionale.
La dura battaglia per la vita andrà in scena anche al cinema.
Valerio Duilio Carruezzo