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Caso Diana, l’inganno dell’autodeterminazione: quando a pagare sono gli innocenti.

Tragedia indicibile. Una bambina lasciata da sola per quasi una settimana chiusa in casa e probabilmente sedata, cioè a morire, di fame e sete, per mancanza di cure. Perché la madre l’avrebbe fatto? Perché «limitava la mia libertà» (parole dell’accusata). Si può pretendere di avere spazi di libertà a scapito della cura di una figlia? Ovviamente per chiunque sia sano di mente, la risposta è un no secco e sdegnato.

La domanda che viene spontanea ora è questa: come mai è considerato sacrosanto parlare di responsabilità che limitano la libertà (di «andare a cercare la mia felicità», nel caso specifico il nuovo compagno) davanti alla vita di una bimba di 16-18 mesi e invece è considerato legittimo il diritto di «frullare i bambini» non ancora nati? Perché oggi sembra che nel secondo caso si possa considerare Silvio Viale un luminare della medicina ed alfiere della libertà (sic!), mentre – com’è giusto che sia – appare doveroso condannare Alessia Pifferi per aver fatto morire sua figlia di una morte atroce (il sig. Viale non si fa remore nello spiegare il procedimento di aborto per aspirazione e, a sua detta, tra questo e “frullare” non v’è molta differenza ndr.).

L’idea stessa che si possa pensare che lei aveva sedato la bambina, fa riflettere anche su un altro tema: quella di Diana è stata una morte ‘certamente’ meno dolorosa, ammesso che lo psicofarmaco forse usato dalla sconsiderata abbia avuto efficacia fino alla fine? Possiamo essere certi che, mutatis mutandis, invece nei casi di ‘eutanasia passiva’ i sedativi funzionino fino in fondo? E, ammesso che davvero sia così, è moralmente lecito privare un essere umano innocente del più essenziale sostegno vitale? Perché è qui che si gioca l’illiceità dell’eutanasia: sia essa “passiva” o “attiva” (ovvero, sia in caso di omissione dei sostegni vitali, sia di somministrazione di un farmaco letale) si tratta sempre di un atto deliberato volto alla soppressione di un essere umano innocente.

Tutto questo accanto alla domanda se esistano motivi per disprezzare la vita al punto da poter rinunciare ad essa, da cui si farebbe poi discendere un dovere giuridico che obbligherebbe la comunità dei consociati ad avallare, senza possibilità di sindacarla, tale “scelta” e spendere risorse pubbliche per realizzare un fine privato ed esistenziale a venir soppressi. È quasi come se la perdita di un soggetto – che è inserito nel tessuto umano, sociale, politico ed economico – possa diventare un vero e proprio “vantaggio”.

È vero: i due temi non sono apparentemente riconducibili l’uno all’altro, ma bisogna già da ora chiedersi se l’idea della “qualità della vita” possa divenire un metro di valutazione tale da incidere sul valore dell’esistenza a tal punto che, (a) obblighi la comunità dei consociati a fornire al singolo i mezzi per sottrarsi ad essa togliendosi la vita; (b) sancisca l’esistenza di un “diritto”, da parte di una persona, di dichiararne un’altra come peso per se stessa, in quanto ne deve aver cura, obbligando la stessa comunità a sopprimerla; (c) determini la facoltà dei governanti di poter decidere chi ha diritto ad esistere e chi no. Inizia ad essere una vera sfida cercare di capire chi, tra le antiche civiltà pagane, gli uomini del secolo scorso e quelli che vivono in quest’epoca sia più animalesco: abbandonare figli deformi o soggetti anziani è tipico di coloro che non hanno sviluppato un grado di civiltà tale da riconoscere la dignità umana.

Essere pro-life oggi significa richiamare sempre la responsabilità e la solidarietà verso i più deboli come principio non negoziabile, (ovvero tra i principi che regolano l’agire umano, fondamento della vita sociale, ai quali non si può in alcun modo rinunciare ndr.).

Lo scalpore suscitato dall’esile e indicibilmente provato corpicino di una bambina che già camminava e forse parlava, dovrebbe essere la stessa reazione alla vista di quei corpicini, ancora più minuscoli, che finiscono tra i rifiuti ospedalieri e di una persona, sola nella sua stanza, ma ancor più sola nell’anima, che erroneamente crede in un giovamento alla comunità con la morte del proprio figlio!

Vorrei, di cuore, che chi legge ricordi e mediti le parole di “Meraviglioso”, bellissimo singolo  dell’immenso Modugno pubblicato nel 1968, che forse tutti (io sicuro) conosciamo per l’altrettanto stupenda cover dei Negramaro del 2008. La cultura della morte “ci ha inventato il male” (concedetemi la licenza). Esiste un mondo intorno a noi, fatto di tante cose belle: il sole, il vento, l’amore di chi ci ama – e forse non può, perché ci siamo chiusi a loro per primi! –, le nostre passioni ed aspirazioni, la vita stessa che scorre, tutto ciò che è ancora capace di farci spuntare un sorriso. Piccole cose davanti a cui l’idea di eliminarsi o di eliminare qualcun altro si scioglie in quanto si scopre che non siamo soli, ma che ci sono occhi, orecchie, sorrisi, mani e piedi che non aspettano altro che una nostra domanda, un nostro sguardo per sostenerci.

Ad Alessia certamente è mancato tutto questo e molto altro: per dovere di cronaca, dopo 4 giorni dall’abbandono, spaventata dalla possibilità della morte, aveva pensato di tornare dalla figlia, ma, ciononostante, non lo ha fatto e nemmeno il “fidanzato” l’ha aiutata in alcun modo, occupato com’era a rendere la Pifferi sempre più affettivamente dipendente da lui. Questa donna sta pagando a caro prezzo l’inganno in cui si è lasciata trascinare, così come si ingannano tanto le donne che si sentono sole o che pensano che la carriera e l’evitare il sacrificio valgano almeno quanto un’altra vita umana, quanto tutti quegli anziani e giovani che non riescono più a darsi valore.

Francesco Chilla

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