Moral Theory: un volume sulla morale tradizionale e sul rispetto della vita umana
Moral Theory: A Non-Consequentialist Approach è il primo di due volumi che compongono una opera sistematica di etica scritta da David Oderberg, filosofo australiano che attualmente insegna all’università di Reading, nel Regno Unito. Questo primo volume tratta dei principi fondamentali (e quindi anche più generali) della morale, mentre il seguente, Applied Ethics: A Non-Consequentialist Approach, tratta di alcune questioni specifiche: l’aborto, l’eutanasia, i cosiddetti “diritti degli animali”, la pena di morte e la guerra.
L’opera è dedicata “vitae humanae difensoribus humanitatisque”, cioè “ai difensori della vita umana e dell’umanità”, ed ha come scopo dichiarato quello di contrastare il consequenzialismo (cioè la posizione per la quale tutto ciò che conta nella valutazione della moralità di un atto sono le sue conseguenze e, quindi, il fine giustifica i mezzi) che viene messo a confronto con la “morale tradizionale”, cioè una visione dell’etica derivante dal cristianesimo e, secondo Oderberg, ampiamente diffusa tra la gente comune in occidente fino agli anni ’60.
Moral Theory si apre con un capitolo introduttivo in difesa dell’oggettività e conoscibilità della morale. L’autore sostiene che l’etica si possa definire una scienza. Il principale argomento contrario, basato sul fatto che i dibattiti in campo etico sembrano essere più numerosi dei consensi e che essi sembrano risolversi raramente, non è dirimente. È facile spiegare perché la riflessione etica progredisca così lentamente e faticosamente, e perché possa addirittura regredire in alcuni periodi: le implicazioni che essa ha per la vita degli individui possono rappresentare una distrazione e possono, per esempio, spingere gli stessi filosofi a razionalizzare posizioni permissive.
Vengono affrontati anche il relativismo, il prescrittivismo e l’emotivismo. Oderberg controbatte alle ultime due teorie sviluppando alcune riflessioni di Peter Geach, ma vengono aggiunte alcune idee ulteriori. Ad esempio, se le asserzioni in ambito morale non descrivono una realtà, ma sono solo comandi sotto mentite spoglie, come vorrebbe il prescrittivismo, che dire dell’affermazione «fare la prostituta è sbagliato» pronunciata rivolgendosi ad un uomo?
Segue un capitolo che definisce i concetti più importanti della morale, come il bene, la virtù, i diritti ed i doveri. Il bene, ad esempio, viene descritto come la condizione per la quale una cosa o un’attività raggiunge i suoi fini. Oderberg è tornato a difendere questa sua analisi proprio quest’anno in un volume intitolato The Metaphysics of Good and Evil. Dopo aver definito cosa sia un diritto, l’autore procede a mostrare come il consequenzialismo non ammetta l’esistenza di diritti in senso stretto, neanche del diritto alla vita: l’uccisione di una persona potrebbe sempre venire giustificata dall’interesse della maggioranza. In termini più precisi, viene osservato che ogni teoria consequenzialistica richiede di massimizzare, a livello della collettività, una qualche qualità: la soddisfazione dei desideri, il piacere, o qualcos’altro. Se l’intento di massimizzare lo rendesse necessario, si potrebbe e si dovrebbe passare sopra a qualsiasi interesse di un singolo.
Il capitolo successivo tratta della distinzione tra effetti intenzionali e meramente previsti di un’azione, e di quella tra atti ed omissioni. Qui Oderberg difende il Principio del Doppio Effetto, che descrive quando è ammissibile tollerare un effetto cattivo di un atto che si sta valutando se compiere. Tale effetto cattivo deve, tra le altre cose, essere preterintenzionale: non è mai lecito perseguire un male come fine o come mezzo, indipendentemente dagli effetti buoni che potrebbero scaturirne. Questo è il punto cruciale che distingue morale tradizionale e consequenzialismo. L’autore riconosce l’esistenza di casi in cui è difficile dire se un elemento di un atto sia intenzionale o meno, ma questo non dimostra che la distinzione sia priva di valore e rilevanza. In questo contesto egli osserva anche come il consequenzialismo, che da un lato si mostra permissivo, concedendo in certe situazioni di passare sopra ai più basilari diritti dell’individuo, dall’altro lato si mostra troppo esigente, cancellando le distinzioni tra obbligatorio e supererogatorio, tra ciò che è lecito e ciò che è eroico, tra buono e migliore. Esso infatti prescrive in ogni situazione, come unica opzione lecita, quella che massimizza la qualità che viene identificata con il bene (soddisfazione dei desideri, piacere, ecc…). Questo porterebbe in alcune situazioni a dover ritenere obbligatorie delle azioni che nessuno riconosce come tali.
L’opera si conclude con uno sguardo ravvicinato al bene fondamentale, nel senso che esso è alla base di tutti gli altri: la vita. Oderberg difende una tesi che chiama “Santità della vita” per la quale è sempre sbagliato uccidere un essere umano innocente. La sua trattazione si concentra sulla indisponibilità della vita, cioè l’impossibilità di rinunciare al proprio diritto ad essa, per esempio con il suicidio o con l’eutanasia.
La vita, osserva Oderberg, è condizione necessaria per la ricerca di qualunque bene, e quindi è essa stessa un bene inviolabile. In altre parole, se c’è qualcosa che merita di essere perseguito, la vita stessa merita di essere perseguita. Se c’è qualcosa che immancabilmente attira la natura umana come una meta, la vita attira parimenti come unica strada per tale meta. Ricordando la definizione del bene come la realizzazione dei fini dell’entità in questione, e del fine come qualcosa a cui si tende, non è difficile vedere perché la vita deve considerarsi essa stessa un bene.
L’autore risponde anche ad un’ultima obiezione, che osserva come ad alcuni beni, per esempio alla proprietà di oggetti materiali e denaro, sia perfettamente lecito rinunciare; perché allora non anche alla vita?
Oderberg risponde che mentre è possibile rinunciare a delle proprietà particolari, lo stesso non vale per la proprietà in generale, o per il diritto all’avere delle proprietà. Ma ognuno di noi ha una vita sola, quindi rinunciare ad una particolare vita è la stessa cosa che rinunciare al bene della vita per intero, in analogia con una impossibile rinuncia al diritto di possedere delle proprietà.
Viene espressa anche una critica all’idea che ci siano vite «indegne di essere vissute». Come si dovrebbero distinguere le vite degne da quelle indegne? Sembra non esserci nessun criterio oggettivo per determinarlo. Affidarsi ad un criterio soggettivo, cioè permettere a chiunque di dichiarare che la propria vita è indegna di essere vissuta, sembra ancora più assurdo. Davanti ad una persona che sembra godere di tutti i beni fondamentali della vita (la salute, le amicizie, ecc…) tutti dovrebbero percepire chiaramente che la sua vita è degna di essere vissuta, anche se il diretto interessato sostenesse inspiegabilmente il contrario. Inoltre, nell’analisi proposta da Oderberg, il bene non è qualcosa di soggettivo, dipendente solo da sentimenti e sensazioni, quindi una persona potrebbe essere clamorosamente in errore riguardo al fatto che la propria vita sia più o meno buona, più o meno degna.
Questo primo volume, benché si concentri su questioni molto astratte ed apparentemente distanti dai veri dilemmi riguardanti l’agire umano, come quelli della bioetica, in realtà si presenta chiaramente come il preludio di una lucida riflessione su questioni concernenti la vita e la morte, che verrà sviluppata nel secondo volume.
Matteo Casarosa