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Tolkien e la bioetica: Faramir doveva morire?

immagine tolkien

Ogni generazione si pone da sempre una domanda: le leggi vanno sempre rispettate oppure esistono situazioni in cui sia doveroso contravvenirle per seguire delle norme morali che vanno in senso inverso?

Oggi ci ritroviamo per i fatti di cronaca, per il dibattito bioetico e persino politico a parlare dell’esempio tremendo e archetipo di Antigone, la quale fu punita perché seppellì, in ragione della pietas, alcuni corpi, seppur le leggi glielo impedissero.

Vi voglio riportare in questo articolo un altro esempio altrettanto limpido. Un episodio, al solito mio, tratto dal prof. Tolkien, in particolare il Ritorno del Re: durante l’imponente battaglia davanti alle mura di Minas Tirith, Pipino, in barba ai comandi di Denethor, di diritto suo signore, convince l’amico Beregond a salvare dalla pazzia del Sovrintendente il figlio di lui, Faramir, che, colpito dall’Ombra Nera, rischiava di morire anzitempo in un rogo atroce.

La chiave di volta per comprendere il fatto è in questo dialogo:
«Sire Denethor – disse Beregond – non permette a coloro che vestono di nero e argento (1) di allontanarsi dal proprio posto per alcun motivo, a meno che non lo ordini lui stesso».
«Ebbene, devi scegliere fra gli ordini e la vita di Faramir. –
  disse Pipino – E comunque credo che abbiate a che fare con un pazzo, e non con un sovrano» (2).

Il nostro eroe poco dopo lo ritroviamo a cercare Gandalf davanti al Cancello della Città, che è stato appena abbattuto per ordine del generale di Sauron. La scena ha un rivolgimento spettacolare: infatti proprio in quel momento si odono i corni di Rohan, tanto che i nemici sono obbligati a cambiare repentinamente i propri piani. In quell’ istante Pipino può riferire a Gandalf dell’imminente rogo a cui Denethor ha condannato se stesso e il figlio Faramir.

Ma quali erano le condizioni di Faramir?
Faramir era stato colpito da una freccia nemica, brillantemente curata dai Guaritori di Minas Tirith, ma la sua condizione era stata cagionata dall’Ombra Nera, infatti dice Aragorn «l’oscurità dev’essere lentamente penetrata in lui, mentre combatteva, lottando per salvare il suo avamposto» (3). Ma cos’è questa Ombra Nera? Essa è cagionata dall’Alito Nero dei Nazgul e “coloro che ne erano colpiti piombavano lentamente in un delirio sempre più profondo per poi passare al silenzio, a un freddo micidiale, e infine alla morte” (4). Faramir era stato colpito molto duramente da tale male ed erano passati appena tre giorni quando Aragorn lo trova ed era veramente nei suoi ultimi istanti. E solo un giorno, forse meno, da quando Denethor voleva che ardesse insieme a lui.

Era un pazzo Denethor che voleva accorciargli di un sol giorno la vita, risparmiandogli forse di essere oltraggiato dai nemici, o sono stati pazzi Pipino, Beregond e Gandalf a volerlo salvare, probabilmente per sole 24 ore in più, perché era ancora vivo, affinché venisse accudito fino alla fine?

Ciascun lettore si dia una risposta e poi la confronti con l’attualità del nostro mondo in cui si scontrano proprio queste due etiche: chi considera dignitoso accorciare la vita per abbreviare le sofferenze e chi predilige accompagnare con la massima cura possibile la persona alla morte naturale.

Mentre Eowyn e Merry affrontavano in modo vittorioso ma drammatico il Re Stregone, Imrahil (5) guidava la carica dal cancello della Città ed Aragorn giungeva con le navi nere, Gandalf e Pipino cavalcavano verso l’interno della città.
A loro toccò vedere una scena atroce: Beregond, stando in piedi sulle scale della necropoli dei Sovrintendenti, luogo sacro, aveva appena ucciso il portinaio e alcuni tra i servi scellerati, per impedire loro di portare a Denethor la legna e l’olio per il rogo.
Nel dialogo che segue tra Gandalf e Denethor è interessante vedere come la pazzia disperata del Sovrintendente sia foriera di morte, mentre il buon senso dello Stregone favorisce la vita, anche in un momento così difficile: infatti, mentre Denethor invita, in un momento di delirio, a «morire fianco a fianco» (6) in un rogo collettivo, Gandalf gli ricorda il suo dovere di Sovrano, cioè quello di sperare e perciò di tornare a combattere, e combattendo, «di incontrarvi forse la morte».

La tragedia infine si consuma con Denethor che si dà fuoco e muore in un rogo, il quale diventa un incendio che fa crollare l’intera necropoli dei Sovrintendenti.
Ma Faramir è salvo, grazie al “buon senso Hobbit” di Pipino, all’insubordinazione di Beregond e alla forza di Gandalf.

Rivolgendosi a chi era presente, lo Stregone dice loro, a chiosa di tutto: «Sono state compiute azioni malvagie in questi luoghi, ma ora accantonate ogni rancore fra di voi, perché il Nemico ne è la causa e tutto ciò serve ai suoi scopi. Siete stati presi in una rete di doveri inconciliabili, e non siete stati voi a tesserla. Ma pensate, servitori del Sire, ciechi nella vostra obbedienza, che se non fosse stato per il tradimento di Beregond, a quest’ora Faramir, Capitano della Torre Bianca,  starebbe ardendo anche lui» (7).

Chi è il Nemico di cui parla Gandalf? È forse Sauron? Saruman? Non il secondo sicuramente; forse il primo. Certamente parla di un “nemico” più alto, di cui Sauron è soltanto un’espressione contingente particolarmente grande e potente. Il Nemico, tanto nel mondo subcreato dal prof. Tolkien, quanto nel mondo che lui definiva “primario”, cioè il nostro, è tutto ciò che spinge nell’intimo della coscienza a realizzare dei fatti malvagi. È il male radicale, un’entità per noi afferrabile, al pari del bene radicale, solo nelle sue espressioni concrete.

Come può essere vinto questo male? Solo affermando il suo contrario, tramite la giustizia, la pratica di alcune virtù, quelle necessarie nel momento contingente, e in certi casi la misericordia, la quale, senza retorica, arriva veramente laddove la giustizia e le altre virtù non possono.

Gandalf al momento ha invitato a perseguire alcune virtù, proponendo a Beregond e ai servi del defunto Denethor a deporre sia le armi che i rancori. Il tempo della giustizia non è ancora venuto, ma vi giungiamo quando, una volta terminata in modo vittorioso la guerra con la distruzione dell’Unico Anello, Beregond viene giudicato dall’ormai Re Aragorn.
Riporto il passo.

Il Re disse a Beregond: «Beregond, la tua spada ha fatto sgorgare sangue nei Luoghi Sacri, ove ciò è proibito. Inoltre tu abbandonasti il tuo posto senza il permesso del Sire o del Capitano. Per queste colpe, in passato, vi era la pena di morte. Io devo quindi ora pronunciarmi sulla tua sorte. Ogni pena ti è rimessa per il valore dimostrato in battaglia ed ancor più perché tutte le tue azioni furono compiute per amore di Sire Faramir. Tuttavia dovrai lasciare la Guardia della Cittadella e partire dalla Città di Minas Tirith. […] Così dev’essere, perché sei destinato alla Bianca Compagnia, la Guardia di Faramir, Principe d’Ithilien, e tu sarai il suo capitano e dimorerai in pace e onore […] al servizio di colui per il quale rischiasti tutto pur di salvarlo dalla morte» (8).

Un giudizio troppo duro o troppo garantista? Vi lascio con questa domanda. L’unica cosa certa è che il prof. Tolkien l’ha ritenuta degna di un sovrano di popoli qual era diventato Aragorn.

Francesco Chilla

 

NOTE:

  1. a coloro che vestono di nero e argento: allude alle Guardie della Cittadella, che dovevano proteggere personalmente il Re di Gondor (come si deduce dal loro stemma), sia il Sovrintendente, in quanto reggenti sine tempore del regno.
  2. J.R.R. Tolkien, Il signore degli Anelli – Il Ritorno del Re, Libro V – Cap. IV, L’assedio di Gondor, pag.2580 (Bompiani Editore – 2004).
  3. Cap.VIII – Le Case di Guarigione, pag.2695
  4. Ibidem, pag.2682
  5. È il principe di Dol Amroth (lo stemma è un cigno argentato su sfondo azzurro), cognato di Denethor, la cui defunta moglie, Finduilas, era sua sorella.
    La prossimità nella linea di parentela, determina il fatto che egli diventa Sovrintendente pro tempore.
    Si evince dal suo dialogo con Legolas che egli sia disceso da un matrimonio tra Elfi e Uomini, al pari di Aragorn.
  6. Libro V – Il Rogo di Denethor, pag. 2659
  7. Ibidem, pagg.2666-2667
  8. Libro VI – Il Sovrintendente e il Re, pagg.3003-3004

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