L’uso volutamente ambiguo del termine “eutanasia”

Non di rado, il dibattito sull’eutanasia nasce viziato da considerevoli equivoci inerenti la definizione stessa di eutanasia. Si confondono così, ad esempio, cure interrotte perché inutili e dannose per il paziente, e casi di omissione colpevole di cure che sarebbe doveroso somministrare, e che vengono interrotte con lo scopo di ottenere la morte del paziente. Un altro fenomeno deleterio riguarda l’introduzione linguistica della pericolosa distinzione fra eutanasia attiva e passiva. È noto, infatti, che un’azione e un’omissione meritano il medesimo giudizio morale (e non di rado giuridico), quando sono al servizio di una medesima volontà e quando esiste un dovere intrinseco di agire in capo a un determinato soggetto. La morale e, ancor più il diritto, di solito ci vietano determinati comportamenti (ad esempio di rubare o di uccidere) e molto più raramente ci obbligano a tenere una certa condotta. Tuttavia, tale «dovere di agire» è ben noto sia in morale che nel diritto.
Poniamo che Tizio si trovi nei pressi di una casa nella quale divampa improvvisamente un incendio. Fino a pochi istanti prima di avere coscienza di questo fatto, Tizio non era obbligato dalla morale e dal diritto a fare alcunché: poteva proseguire la sua passeggiata, o poteva restare seduto a prendere il sole o poteva continuare a leggere il suo giornale. Dal momento in cui Tizio si accorge che divampa l’incendio, egli è investito da alcuni dovere insieme morali e giuridici: dare immediatamente l’allarme; verificare se nella casa c’è qualcuno e se può fare qualche cosa per salvarlo. Non basta: il ruolo sociale svolto abitualmente da Tizio amplia o restringe il fascio dei doveri che gli sono imposti in quella circostanza. Se è un tranquillo impiegato, nessuno potrà pretendere che egli si getti nelle fiamme per salvare qualcuno che chiede aiuto; se è un medico, egli sarà tenuto a prestare il primo soccorso e a eseguire le eventuali manovre di rianimazione; se, infine, Tizio è un pompiere attrezzato di tutto punto che sta per recarsi in caserma, allora è tenuto ad intervenire in modo molto più energico e rischioso.
Alla fine della nostra simulazione, siamo perfettamente in grado di comprendere che la passività di un essere umano, determinata dalla sua libera volontà («non voglio agire in questa situazione») può essere pienamente equiparata, sul piano della colpa e della responsabilità, ad un comportamento attivo. La madre che si rifiuta di alimentare il figlio neonato e, così ne provoca intenzionalmente la morte per fame non è meno responsabile della madre che attuasse un infanticidio con un comportamento attivo.
Dunque la condotta attiva e la condotta omissiva non sono di per sé degli strumenti adeguati per distinguere un’azione buona da una cattiva, l’esercizio di un diritto dalla commissione di un delitto. Questo articolato ragionamento si applica anche al tema dell’eutanasia. La relazione medico-paziente concretizza non soltanto il dovere – primario – del medico di «non nuocere» al proprio assistito; ma tale peculiare relazione si esprime anche nel dovere del medico di assistere il malato, curarlo, lenire la sua sofferenza; dovere incompatibile con un atteggiamento omissivo, finalizzato a favorire la morte del paziente stesso.
Ulteriori elementi di confusione nel dibattito intorno alla «buona morte» sono introdotti dalla frequente abitudine a considerare la radice dell’atto eutanasico nella volontà libera e consapevole del paziente. Non ci riferiamo qui alle profonde e legittime perplessità, che si possono sollevare in merito alla attendibilità di tale richiesta: argomento non risolutivo, poiché si potrebbero attuare misure particolarmente attente alla verifica del grado di consapevolezza del soggetto che chiede di morire.
Qui intendiamo, invece, richiamare l’attenzione intorno a un aspetto ben più radicale e decisivo sul piano etico-giuridico; cioè, sul fatto che l’eutanasia «su richiesta» del paziente costituisce soltanto una delle molteplici tipologie di eutanasia, che una società potrebbe decidere di legittimare e legalizzare. È incontestabile, infatti, che l’eutanasia è praticabile anche in assenza della volontà del malato o, perfino, contro di essa: di questo fatto si hanno evidenze sia sotto il profilo storico, con riferimento a ciò che è avvenuto nel passato, sia con riferimento al dispiegarsi del dibattito contemporaneo sull’eutanasia.
Appare, dunque, indispensabile muovere da uno sforzo di chiarificazione delle parole, che ci aiuterà a definire lo status quaestionis e sviluppare, senza equivoci, il giudizio etico-giuridico intorno a questa pratica.
Continua …
Tratto dal libro “Eutanasia: diritto o delitto?” di Mario Palmaro