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Ecco la storia dell’aborto terapeutico!

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Nella foto, l’ospedale Margaret Hague Maternity Hospital specializzato nell’assistenza alle donne in gravidanza nei primi anni del ‘900 in New Jersey, famoso per la sua riluttanza nell’effettuare aborti “terapeutici”.

Premessa

In questo articolo viene fornita la presentazione di un campione (si spera) rappresentativo delle ragioni medico-scientifiche portate dal fronte antiabortista contro l’aborto cosiddetto terapeutico e la sua supposta necessità negli anni ’60, cioè al momento o alla vigilia della grande liberalizzazione della pratica abortiva nel mondo occidentale.

A tal riguardo bisogna precisare che:

  • Si tratta di un articolo di storia, e non di medicina in senso stretto;
  • I dati riportati si riferiscono alla situazione vigente al più tardi nel 1971, e quindi, presi da soli, non sono validi oggigiorno, perché non tengono conto dei progressi occorsi intanto negli ultimi 50 anni nella ricerca e nella pratica medica, dei quali parlerò in un successivo articolo, a Dio piacendo;
  • L’articolo non presenta né tantomeno analizza criticamente tutta la letteratura scientifica dell’epoca sull’argomento, ma offre di essa soltanto un campione dalle caratteristiche ben definite.

Segnalo poi che sebbene mi sia sforzato di accedere sempre direttamente alle fonti da me citate, ciò purtroppo non mi è stato sempre possibile praticamente, e pertanto alcune volte sono stato costretto a ripiegare su citazioni di seconda mano.

Rendo noto infine che le fonti da me citate alle quali non è stato annesso un collegamento ipertestuale possono essere trovate e consultate sulla biblioteca digitale Internet Archive (qui).

Nozioni preliminari

Il concetto di aborto terapeutico non ha avuto un contenuto fisso nel tempo. Ad es. all’inizio dell’Ottocento, nel Regno Unito e in quasi tutti gli USA, esso indicava solo l’aborto ritenuto necessario per salvare la vita della madre da un pericolo di morte. (Williams Obstetrics 197114, p. 1086)

Già nel XIX secolo tuttavia si trova già, seppur sporadicamente, quella che non molto dopo divenne e tuttora è la definizione standard di aborto terapeutico, cioè l’aborto praticato per tutelare la salute della donna. Quando in seguito questa seconda definizione si fu affermata, essa, seppur formalmente accolta da tutti, non fu comunque sempre interpretata allo stesso modo. Per la prima edizione (1904) del Williams Obstetrics (divenuto in seguito il manuale di riferimento di Ostetricia negli USA), pp. 339-341, veniva considerato terapeutico l’aborto praticato nei casi in cui la madre fosse stata affetta da iperemesi incontrollabile, utero gravido retroflesso, insufficienza renale, nefrite acuta, (pol)idramnio, emorragia e fibromi uterini, placenta previa, cisti e tumori alle ovaie, pelvi contratta, iperemesi, utero retroflesso, mola idatiforme. Nella prima edizione (1913) di Principles and practice of Obstetrics di Joseph B. De Lee, p. 1054, si trovano aggiunti tubercolosi polmonare e malattie cardiache.

Nel corso della prima metà del Novecento si aggiungono alcune gravi malattie neurologiche come la sclerosi multipla e altre legate al sangue, come la leucemia e gravi forme di anemia (cfr. ad es. la quarta ed. (1947) di Obstetrical practice (p. 759), di Alfred C. Beck). Come si nota, l’aborto terapeutico era comunque sempre riferito solo a situazioni di gravi patologie fisiche o neurologiche della madre. La situazione si complica soprattutto intorno alla metà del Novecento quando, intendendo la salute della donna anche come salute psichica, si prende a classificare come terapeutici anche gli aborti per concepimento da stupro o incesto, per malformazione del feto, e per ragioni sociali (Williams Obstetrics 196613, p. 1059, e 197114, p. 1085). Infine, negli anni ‘60 l’OMS definisce la “salute” della madre anche come “salute sociale” e quindi classifica come “terapeutico” anche l’aborto compiuto nel caso in cui la gravidanza comprometterebbe il benessere sociale della madre (in Williams Obstetrics 197114, p. 1085).

Gli autori che citerò di seguito nell’articolo in genere quando parlano di aborto terapeutico lo intendono nel senso vigente nella prima metà del Novecento.

Stato della questione della necessità dell’aborto terapeutico tra gli anni ’40 e ‘60

1) In generale

Nella 13° edizione (del 1966) del Williams Obstetrics, manuale di riferimento di Ostetricia e Ginecologia della metà del Novecento negli USA, si legge: “L’aborto per salvare la vita della madre raramente è necessario” (p. 1059).

Lo stesso giudizio si trova nella successiva edizione (la 14°, del 1971 – quasi alla vigilia di Roe vs Wade–, p. 1086).

Nella precedente ed. (la 12°, del ‘61), tenendo conto non solo degli aborti finalizzati a salvare la vita della madre, ma anche di quelli solo per tutelarne la salute fisica o psichica, era stato scritto:

“L’aborto terapeutico è un’operazione molto abusata e l’incidenza della procedura nel Paese è molto più alta di quanto dovrebbe”.

Questo fatto è stato messo in evidenza soprattutto da Cosgrove e Carter che al Margaret Hague Maternity Hospital registrano l’incidenza di 1 aborto terapeutico per 16.750 parti. Nell’opinione di Jeffcoate, una vera giustificazione per l’aborto terapeutico non si presenta più di una volta su mille gravidanze”. (p. 1117).

Lo stesso giudizio, seppur con più “timidezza”, era stato proferito già nell’ed. ulteriormente precedente (l’11°, del ‘56, p. 1077).

Queste citazioni risultano particolarmente eloquenti laddove si consideri che le edd. del Williams dalla 11° alla 13° hanno avuto come principale curatore il dr. Nicholson J. Eastman, il quale, oltre che indubbiamente uno dei più autorevoli Ginecologi della sua epoca, a partire dal 1942 fu presidente nazionale del consiglio medico della Planned Parenthood (cfr. qui).

Lo stesso giudizio del Williams si rinviene anche presso altre autorevoli fonti dell’epoca (se ne può leggere un campionario nell’articolo Is Abortion Good Medicine? pubblicato sul Linacre Quarterly (rivista inclusa nella lista delle fonti di Scopus) del febbraio 1968 (pp. 16-23), a firma del dott. Joseph P. Lavelle).

Nelle edd. 11° e 12° del Williamserano citati come fonti il dr. Samuel A. Cosgrove e il Margaret Hague Maternity Hospital. La loro esperienza aveva duramente scosso il rapporto dei medici USA (come minimo) con la pratica dell’aborto terapeutico. Il Margaret era un ospedale di Jersey City (New Jersey) aperto nel 1931, specializzato nell’assistenza alle donne in gravidanza e caratterizzato da un forte conservatorismo. Come direttore era stato assunto il detto dr. Cosgrove, già capo degli ostetrici alla Columbia University (New York). Quest’ultimo, nel ’44, con l’assistente Patricia A. Carter, pubblicò sull’American Journal of Obstetrics and Ginecology (AJOG) uno “shoccante” articolo, A Consideration of Therapeutic Abortion. Esso riportava che nei suoi allora dodici anni approssimativamente di attività (1931-1944), al Margaret erano stati ritenuti necessari e quindi effettuati solo 4 aborti terapeutici su ca. 67.000 parti avvenuti, cioè appunto 1:16.750, lo 0,006%. Cosgrove e Carter ammettevano inoltre che, col senno di poi, dubitavano che uno dei detti 4 aborti fosse realmente necessario. I due medici esponevano in dettaglio nell’articolo anche i protocolli seguiti al Margaret in sostituzione del ricorso all’aborto terapeutico, particolarmente per i casi di gestanti affette da toxemia, ipertensione, tubercolosi polmonare, cardiopatia, iperemesi. Il dato era impressionante soprattutto in confronto con i tassi di altri ospedali USA. Nel dicembre ’44, sempre sull’AJOG, il dr. Nicholson Eastman, “rispondendo” a Cosgrove-Carter, riportò che al prestigioso Johns Hopkins Hospital, in cui era direttore di Ostetricia, nel periodo 1936-1944 il tasso di aborti terapeutici era stato di 1 ogni 65 gravidanze, con un tasso annuale variabile da un minimo di 0,6% del 1938 a 2,9% del 1942: da 100 a più di 6000 volte quello del Margaret e in un arco di tempo più breve. Nel giugno 1945 (meno di un anno dopo), ancora sull’AJOG, i dott. Katherine Kuder e William F. Finn pubblicarono Therapeutic Interruption of Pregnancy, dove riportarono che nel decennio 1932-1943 al New York Lying-In Hospital, pressappoco per le stesse situazioni considerate nello studio di Cosgrove-Carter, erano stati effettuati 280 aborti terapeutici su 46.861 parti, lo 0,6%: in un periodo di tempo più breve, su un numero decisamente inferiore di parti, il tasso di aborti terapeutici era stato il centuplo rispetto al Margaret. Su questi e su ulteriori dettagli del confronto, rimando al resoconto (non esaustivo, perché fermo al 1945) sul Linacre Quarterly che potete trovare qui.

Dopo il ’44 la tendenza registrata al Margaret non solo proseguì, ma anzi si acuì. Nel 1961 un successore di Cosgrove alla direzione dell’ospedale, il dott. Joseph P. Donnelly, pubblicò sul Linacre The Moral Law and Obstetric Practice, nel quale fece un rapporto sui risultati conseguiti in trent’anni di attività del Margaret ed espose i protocolli che venivano seguiti nei casi per i quali altrove veniva “indicato” l’aborto terapeutico. Ne risultò che su 215.000 parti erano stati eseguiti solo otto aborti terapeutici, e a partire dal 1947 non era stato effettuato nessun aborto terapeutico su 115.000 parti. In quello stesso arco di tempo, il Williams Obstetrics del ’56 (p. 1077) segnalava per la maggior parte delle strutture USA adibite per tali operazioni una media di aborti terapeutici per parto variabile da 1:250 a 1:350.

Bisogna tenere sempre presente che in tutte queste cifre sono contati non solo gli aborti con l’ambizione di tutelare la vita della madre, ma anche quelli che ambivano a tutelarne solo la salute.

2) Rispetto a malattie della madre indipendenti dalla gravidanza, ma che potevano essere aggravate da questa condizione

Nel 1952, sul già citato Linacre Quarterly, fu pubblicato, a firma dei dott. Roy J. Heffernan e William A. Lynch, un articolo, divenuto negli anni successivi un punto di riferimento per gli antiabortisti, Is Therapeutic Abortion Scientifically Justified?

Nel saggio veniva passata in rassegna “la migliore letteratura [scientifica]” (cfr. Kelly 1958 p. 80) degli (allora) ultimi 25 anni sulla questione se il ricorso all’aborto terapeutico fosse scientificamente giustificato nei casi di tubercolosi polmonare, cardiopatia reumatica, ipertensione, nefrite cronica, miastenia grave, sclerosi multipla, tumori vari, anemia, malattie da fattore Rh, rosolia, colite ulcerosa. Questi erano giudicati all’epoca i più gravi tra i casi per i quali veniva “indicato” l’aborto terapeutico. Al termine della disanima la loro conclusione era netta: non c’erano evidenze per dire che nei casi considerati l’aborto terapeutico fosse di qualche effettivo giovamento alla madre malata, e pertanto il ricorso ad esso non era scientificamente giustificato, né tantomeno necessario. Essendo poi quelli considerati i casi ritenuti più gravi, era implicito per Heffernan e Lynch che lo stesso giudizio dovesse ritenersi valido anche per tutti gli altri casi meno gravi per i quali si valutava il ricorso alla pratica abortiva.

I due dottori ribadirono le loro conclusioni in un successivo articolo (di cui dirò successivamente) pubblicato sull’AJOG nell’agosto 1953.

In un altro articolo del Gennaio 1953, Changing Indications for Therapeutic Abortion, pubblicato sul Journal of American Medical Association (JAMA) (pp. 108-111), il dr. Keith Russell, riportando l’esperienza del Los Angeles County Hospital, scrisse:

“Non sono stati effettuati aborti per iperemesi gravidica dal 1937. Nessun[ abort]o è stato praticato per pielite dal 1939 … Non sono stati praticati aborti per “indicazioni” fetali negli ultimi 20 anni [i.e. dal 1933]. Non sono stati praticati aborti per malattie mentali o neurologiche dal 1942” (in Kelly 1958, pp. 81s).

3) Rispetto a condizioni anormali della gravidanza che potevano mettere a rischio la vita della madre

All’epoca presa in considerazione, le principali condizioni di questo tipo erano: gravidanza ectopica (o extrauterina), gravidanza addominale, tumore del collo uterino, fibroma dell’utero, (pol)idramnio, placenta previa, rottura o distaccamento totale della placenta, e emorragia uterina.

La soluzione che la medicina antiabortista (chiamiamola così) aveva elaborato per tali situazioni (senza dubbio le più delicate e complesse) era basata su una fondamentale distinzione, cioè quella tra aborto diretto e aborto indiretto, i quali vanno a loro volta distinti dalla semplice rimozione di un feto già morto. Per una dettagliata spiegazione di queste fondamentali distinzioni rimandiamo il lettore ad un precedente articolo pubblicato su questo sito.

Moralmente, dunque, dobbiamo affermare che: 1) l’aborto DIRETTO è sempre illecito; viceversa 2) la semplice rimozione di un feto GIÀ MORTO è sempre lecita; 3) l’aborto INDIRETTO è lecito SOLO nel rispetto delle condizioni illustrate nell’articolo cui abbiamo rimandato.

Queste distinzioni (ahinoi!, non sempre conosciute o debitamente considerate) permettevano di risolvere abbastanza egregiamente (almeno in genere) i problemi posti dalle condizioni patologiche considerate in questo paragrafo.

Laddove si poteva ragionevolmente suppore che il feto fosse ormai già morto (come ad es. in seguito a un distaccamento totale della placenta, o a una gravissima emorragia uterina), lo si poteva rimuovere svuotando l’utero (facendo solo attenzione in tal caso, per quanto possibile, che il corpo del bambino morto fosse trattato con il riguardo dovuto a un essere umano defunto). Per le altre situazioni ci si poteva avvalere, quando ce ne fosse solo strettissima necessità, di quelle procedure che nell’ipotesi peggiore configuravano un caso di aborto soltanto indiretto.

Non sembra fuor di luogo precisare che gli autori da me consultati che hanno trattato il tema in questione avvertivano che i principi ora esposti non erano sempre facili da calare nella pratica, e pertanto raccomandavano, in presenza almeno delle più delicate tra le dette situazioni, di affidarsi a un Ostetrico o Ginecologo (particolarmente) esperto.

Per avere qualche dettaglio in più, soprattutto di natura tecnica, rimando ai due testi a cui mi sono principalmente rifatto, cioè: Gerald Kelly, Medico-Moral Problems, 1958 (2° ed., soprattutto pp. 62-114), e Charles J. MacFadden (Ph.D.Villanova College), Medical Ethics, 1949 (2° ed., specialmente pp. 32-38 e  162-228).

Conviene ricordare che quanto detto in questo paragrafo si riferisce alla situazione vigente al più tardi negli anni ’60, la quale NON necessariamente è la stessa che vige oggigiorno.

4) Aborto terapeutico e mortalità materna

Un’accusa che già all’epoca veniva lanciata contro gli antiabortisti era che il rifiuto totale di ricorrere all’aborto avrebbe comportato maggiori rischi per la vita delle madri e un aumento delle morti di queste. Tuttavia tra i dati allora disponibili se ne potevano trovare alcuni che autorizzavano almeno ad avere dubbi su tale narrativa. Di seguito mi limiterò solo a un paio di esempi. Sul Linacre Quarterly del luglio 1941, pp. 53-65, fu pubblicato l’articolo Whither, Ethics in Medicine?, a firma John F. Quinlan, focalizzato su questioni di Etica medica, ma in cui, seppur in un ambito ristretto, veniva affrontata sul piano tecnico anche la questione dell’effettiva efficacia di quelle pratiche mediche che già di per sé ponevano problemi etici. Alle pp. 60-62 era presa in considerazione la questione dell’aborto terapeutico. Quinlan riportò un importante campione di letteratura scientifica degli anni ’20 e dei primi anni ‘30, nella quale si fornivano i dati di California, Ucraina, Russia, Germania, Irlanda, Inghilterra, Scozia. Dalla disanima di tale campione emergeva che nei contesti più ostili all’aborto terapeutico (Irlanda, ospedali cattolici, zone rurali, etc.) era riscontrabile in genere un tasso di mortalità materna più basso rispetto ai contesti più permissivi verso la pratica abortiva.

Sull’AJOG dell’agosto 1953, pp. 335-345, i già menzionati dott. Heffernan e Lynch pubblicarono l’articolo What is the status of therapeutic abortion in modern obstetrics? In esso riportavano i risultati di una loro inchiesta condotta mediante l’invio di questionari a 367 ospedali statunitensi. Ai questionari avevano risposto in 171, e 152 di questi avevano dato risposte sufficientemente dettagliate per essere ammesse all’analisi dei due autori. Le domande prendevano in esame il periodo 1941-1950 diviso nei due quinquenni 1941-1945 e 1946-1950. Dalle risposte risultò che negli ospedali che non praticavano l’aborto terapeutico si erano avute 1.469 morti di madri su 1.680.989 parti, lo 0,87 %. Negli ospedali in cui invece la suddetta pratica abortiva era praticata c’erano state 1.558 morti di madri su 1.574.717 parti, lo 0,98%. Kelly 1958 (pp. 77s) riporta che Heffernan e Lynch in questo articolo riprendevano anche i punti principali del loro saggio dell’anno precedente, Is Therapeutic Abortion Scientifically Justified?, di cui ho già dato conto prima.

Jacopo Dellapasqua

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